Dalla morte in culla, ai malori improvvisi di giovani atleti, il professor Peter Schwartz da 50 anni studia le malattie genetiche che sono alla base di eventi sincopali che colpiscono bambini e ragazzi, mettendo a punto screening per riconoscere i fattori di rischio e cure prevenire gli eventi avversi.
Oggi dirige il Centro per le Aritmie Cardiache di Origine Genetica dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano, dopo 20 anni trascorsi all’Università degli Studi di Pavia come Direttore della Cattedra di Cardiologia. Pioniere nello studio della sindrome del QT lungo (LQTS); il risultato ha portato ad una drastica diminuzione delle morti improvvise in pazienti affetti da questa malattia (da circa il 50% all’1%). Da molti anni la sua attenzione si è rivolta anche alle morti improvvise di giovani, spesso atleti, che secondo le ultime stime sono in aumento.
Professore come è possibile che ciò accada?
«Questo succede perché ci sono malattie, soprattutto di origine genetica, che fungono da “substrato” a questo tipo di eventi letali. Poi ci sono dei fattori casuali (come forti emozioni o rumori improvvisi) che inducono l’evento in un certo momento piuttosto che in un altro».
Si tratta di tragedie inevitabili o sono in parte evitabili?
«Nella stragrande maggioranza dei casi è possibile riconoscere i fattori di rischio attraverso esami specifici, in particolare negli atleti. Nel nostro Paese per svolgere l’attività agonistica è necessario produrre il certificato di idoneità sportiva redatto da un medico dello sport, che deve sottoporre l’aspirante atleta ad un elettrocardiogramma ed eventualmente ad altri esami. Questo è il punto chiave, perché uno screening elettrocardiografico evidenzia o può far sospettare alcune di queste malattie. Quando all’esame di un ECG di base, o durante una prova da sforzo, si evidenziano aritmie, queste dovrebbero indurre un sospetto ed il medico dello sport dovrebbe indirizzare il paziente ad un centro specializzato. Il problema vero è che in molti gruppi sportivi c’è una certa resistenza a bloccare l’atleta e si tende a non vedere».
Mi sta dicendo che ignorano di proposito?
«Una società che ha un atleta eccellente a volte preferisce far finta di nulla nella speranza che non succeda l’irreparabile, continuando a sfruttare l’atleta per il suo valore. Lo stesso atleta non vuol sentir parlare di controlli perché è una persona di successo, guadagna molto e non vuole perdere i privilegi acquisiti. Peggio ancora sono le famiglie, spesso arrivano da noi ragazzini a cui facciamo diagnosi di malattie molto pericolose che impongono di evitare l’attività sportiva a livello agonistico e i genitori si oppongono e cercano escamotage per non interrompere il percorso sportivo dei figli».
Lei parla di malattie genetiche alla base di queste tragedie, quali sono?
«Sono la sindrome del QT lungo, riconoscibile già con un elettrocardiogramma nel primo mese di vita; la tachicardia ventricolare poliforma catecolaminergica (CPVT); la cardiopatia aritmogena del ventricolo destro e la cardiopatia ipertrofica. Quattro malattie che determinano anche un problema di tipo sociale».
In che senso?
«Molti medici dello sport hanno una scarsa conoscenza di queste malattie e questo non è accettabile. Se non le conoscono, dovrebbero almeno sospettare che “c’è qualcosa che non va” e chiedere un consulto ad un centro specializzato, invece troppo spesso ciò non accade. Quindi il problema è molteplice: le famiglie e gli atleti sottovalutano il problema, i medici dello sport non sempre sanno vedere sull’elettrocardiogramma i segni della malattia».
Cosa si può fare?
«Esiste lo screening genetico, ormai una routine nel nostro Centro. Attraverso un esame del sangue si vede se ci sono mutazioni sui geni della malattia sospettata. Entro 8 settimane si dà una risposta al paziente e, se si trova conferma della malattia, in 15 giorni si fa lo screening genetico di tutti i famigliari di primo grado. A livello sperimentale con una serie di procedimenti e tecniche all’avanguardia siamo inoltre in grado di ricreare in laboratorio le cellule cardiache del paziente sulle quali poter studiare farmaci che possano contrastare il difetto genetico».
A quel punto è possibile intervenire, in che modo?
«I pazienti a rischio di morte improvvisa vengono curati con farmaci beta bloccanti che proteggono oltre il 90,95%. Nei pazienti, in cui si ritiene che il rischio possa non essere azzerato, facciamo l’intervento di denervazione cardiaca di sinistra, un intervento molto semplice e poco invasivo della durata di soli 45-50 minuti che consente di “scollegare” i nervi che collegano il cuore al cervello».
Può essere più specifico?
«Quando si ha una forte emozione o uno spavento il cervello manda attraverso i nervi simpatici impulsi al cuore, che rilasciano noradrenalina, ovvero la catecolamina che scatena le aritmie e la fibrillazione ventricolare. Tagliando questi nervi, gli impulsi non arrivano più al cuore e dunque non si genera l’aritmia fatale. Il vantaggio della denervazione cardiaca è che non ci sono effetti collaterali ed è estremamente protettiva. È un intervento che ho iniziato a far effettuare già nel 1973 con successo. Fino agli anni ’90 ero praticamente l’unico al mondo a far eseguire questo intervento, che ora viene normalmente effettuato anche in altri centri specializzati in Europa e negli Stati Uniti. Ad oggi la combinazione di beta bloccanti e denervazione è certamente il sistema migliore per prevenire le morti improvvise».
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