Quasi i due terzi delle persone che hanno manifestato sintomi persistenti di Covid-19 durante i primi 2 anni della pandemia erano donne. Lo studio globale ha anche rilevato che circa il 6% delle persone con infezioni sintomatiche aveva un long Covid nel 2020 e nel 2021. Il rischio di un long Covid sembrava essere maggiore tra coloro che avevano bisogno di ricovero in ospedale, in particolare quelli che avevano bisogno di terapia intensiva. Complessivamente, il 6,2% delle persone ha riportato almeno uno dei sintomi long Covid, di cui il 3,7% con problemi respiratori in corso, il 3,2% con affaticamento persistente e dolore fisico o sbalzi d’umore e il 2,2% con problemi cognitivi. Il 38% delle persone con long Covid ha riportato più di un sintomo (JAMA Global Burden of Disease Long Covid Collaborators).
Il long-Covid impatta tanto sul corpo quanto sulla psiche e per questo, complici anche gli stress del momento storico che stiamo vivendo, rischia di diventare un vero e proprio ostacolo sulla strada del benessere per tante persone. A tutte le età e, in alcuni casi, anche senza una diretta correlazione con la gravità del quadro di Covid-19, con comparsa di disturbi a distanza anche in chi ha avuto sintomi lievi legati alla replicazione del virus.
Ma quando si parla di long-Covid? In termini generali si intende una condizione clinica caratterizzata da segni e sintomi eterogenei che permangono o si sviluppano dopo quattro settimane dall’infezione acuta da SARS-CoV-2. Le manifestazioni cliniche sono molto variabili e oggi non esiste un consenso unanime sulle loro caratteristiche, anche se è possibile distinguere manifestazioni generali come astenia, mialgie, artralgie, debolezza generale e quadri legati al benessere di un singolo organo come difficoltà a respirare normalmente, tachicardia, mal di testa inspiegabili e magari anche segni di reflusso gastro-esofageo.
Rifacendosi sempre all’”istantanea” scattata dagli esperti di Fadoi, ci si accorge che a fare da “apripista” ai disturbi è quasi sempre una stanchezza indicibile, che limita le possibilità di fare ciò che si faceva prima dell’infezione. Questo problema, sia pure se con diverse gradualità, sarebbe presente addirittura in quasi quattro persone su cinque. Anche una sorta di difficoltà nelle comuni attività cerebrali, in termini di prontezza nelle reazioni e capacità di seguire a lungo un percorso, compare in alcune persone, sotto forma di una specie di “nebbia” che pare offuscare il normale funzionamento del sistema nervoso.
Ancora: permangono per molti, più o meno sei soggetti su dieci, difficoltà a respirare normalmente, che si manifestano con affanno e facile affaticabilità. Solo nei casi più gravi anche uno sforzo fisico minimo mette nelle condizioni di respirare più velocemente per compensare le carenze di ossigeno.
Capitolo cuore: sono tante le osservazioni che dicono come il cuore e i vasi di chi ha avuto Covid-19 presentino caratteristiche di rischio maggiore. L’ultima analisi svedese apparsa su British Medical Journal in questo ambito mostra che nel primo mese dopo il quadro si osserva un aumento di circa cinque volte del rischio di trombosi venosa profonda ed un incremento di oltre trenta volte del rischio di embolia polmonare e quasi raddoppia l’incidenza di emorragie. Poi, progressivamente, il rischio scende. Ma permane anche a distanza di mesi, seppur meno significativo.
Perché nasce il long-Covid
Mancano ancora informazioni per spiegare compiutamente la possibile origine di questi e di tanti altri disturbi legati a questa particolare condizione, anche se spesso si risale ai danni causati dall’infezione virale e dalla risposta difensiva dell’organismo su specifici apparati, come quello respiratorio e quello cardiovascolare.
In ogni caso, appare importante la presenza di uno stato iper-infiammatorio persistente o una risposta anticorpale inadeguata, che potrebbero contribuire a generare la situazione. Tra le cose che non si sanno, insomma, manca la certezza che la sindrome post-Covid dipenda direttamente dal virus o sia piuttosto provocata soprattutto dallo stress e dal trauma connessi all’infezione. tuttavia sappiamo che il virus ha fra i suoi bersagli l’endotelio dei vasi sanguigni. Ancora: si pensa che, tra gli altri fattori, si possa verificare una sorta di reazione autoimmune, con il virus che in pratica induce un “errore” da parte del sistema difensivo dell’organismo portandolo al punto di produrre autoanticorpi, che non riconoscono come “propri” del corpo tessuti che quindi possono essere attaccati, dando il via ai sintomi.