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De Sisti fa 80 anni: “Ero moderno e non lo sapevo”

Farà fatica a guardare il calcio di oggi.
«Divento matto quando sento parlare di approccio sbagliato alla partita. Ma scherziamo? Può capitare una volta e te ne devi pentire per anni. Un calciatore ha solo il compito di allenarsi per bene, giocare non per sé stesso bensì in armonia con i compagni e, verso la fine della carriera, stare attento a ciò che può influire sulla condizione fisica. Non ha bisogno di alzarsi tutti i giorni alle cinque e faticare davvero. Vedo atteggiamenti inconcepibili, qui tutti professori, sento offese agli arbitri. Io sono strano: mi dà fastidio anche chi sputa in campo, soprattutto adesso che si gioca pure all’ora di pranzo».

Allora perché continua a vedere le partite?
«Perché niente mi entra nelle viscere come il calcio. Ho provato con il basket, mi piacciono golf e tennis, mi emoziona il pugilato, ma è inutile: il calcio mi è rimasto dentro».

Se la forma per lei è sostanza, probabilmente avrà da ridire sia su Mourinho sia su Italiano.
«Non giudico nessuno. Sì, capita che mi trovi in disaccordo con qualche uscita dialettica o qualche gesto, però entrambi stanno ottenendo risultati. Le loro squadre li seguono. Mi sembrano funzionare».

A questo punto della sua vita, ha finalmente scelto tra Roma e Fiorentina?
«No, persisto nell’imbarazzo. Essere nella hall of fame di entrambe le squadre per me è qualcosa di straordinario. A Roma ci sono le mie radici, i parenti, i ricordi. Lo stradone sterrato che percorrevo per girare intorno al muro della chiesa e raggiungere il campo della parrocchia su cui giocavo. Attaccavo le figurine dei calciatori sulla parete dello sgabuzzino, l’unico posto che mi era permesso sporcare. All’epoca sognavo di esordire in Serie A con la Roma. Ho avuto molto di più e stento ancora a crederci. A Firenze mi hanno fatto sentire un calciatore di primo piano, ho vinto lo scudetto giocando e l’ho accarezzato da allenatore. Ho versato qualche lacrima quando la Roma mi ha ceduto. Avevo ventidue anni, lasciavo ragazza e amici e casa. Credo sia normale».

Ma a Firenze stava come a casa.
«Esordii con un gol. Il presidente Nello Baglini mi invitò a cena. C’erano imprenditori del Norditalia e lui mi indicava orgoglioso, quasi fossi un nuovo modello di automobile o un orologio prezioso. Mi vergognavo un po’, tuttavia capii e la presi come una gratificazione. Una volta dovevo trattenermi a Roma un giorno in più per una pratica burocratica, pranzai con Pesaola e gli chiesi il permesso. Lui si alzò e mi disse: allora non ha capito niente, lei è il padrone della Fiorentina, faccia come meglio crede».

Qualcuno ha finito per crederci, a questa storia del padrone della Fiorentina.
«Io no di sicuro, ma Radice effettivamente me lo confessò. Sono convinto che ci stia ascoltando da lassù, quindi non racconto cavolate. Ero il capitano, rispettato e benvoluto da tutti i compagni, e allora significava qualcosa. Adesso si riceve la fascia dopo una stagione e mezzo, si bacia la maglia e poi si va a baciarne un’altra a gennaio. Radice non mi vedeva e io sinceramente non volevo andare in panchina, non c’ero abituato. Così mi sistemavo in tribuna e tutti mi chiedevano perché non giocassi. Scelte del tecnico, rispondevo. Ero arrivato a pesare sessantasei chili: un’acciuga, io che sono sempre stato un bombolotto muscoloso. Alla fine dissi a Radice che un’altra stagione così non l’avrei sopportata. Non avevo idea che stessero per esonerarlo».

E lei tornò alla Roma.
«Mi cercò Mazzola, ma ricevetti la telefonata del braccio destro di Anzalone, Camillo Anastasi, e non esitai. Lavorare di nuovo con Liedholm per me era il massimo. Ti affascinava con quei verbi all’infinito e quelle battute sarcastiche. Poi prendeva il pallone, ti diceva di calciare la palla in un punto preciso e prima la calciava lì lui. Per un po’ gli feci da assistente. Capitava che i calciatori non avessero troppa voglia di darmi retta. Liedholm arrivava e diceva che chi non faceva quello che volevo io non avrebbe giocato la domenica, semplice. Devo essere grato a tanti, da Chiappella a Pesaola a Valcareggi, ma probabilmente nessuno mi ha influenzato quanto lui».

Come allenatore o come giocatore?
«Come giocatore le lezioni di vita e di calcio che mi ha impartito Schiaffino non hanno eguali. In un certo senso continuano ad accompagnarmi. Uno che se poteva giocava la palla di prima, se non poteva al massimo la toccava due volte. Io ho provato ad aggiungere qualche dribbling, se proprio necessario».

Così De Sisti divenne Picchio, cioè la trottola della Roma. E il regista della Fiorentina e l’equilibratore della Nazionale.
«Valcareggi arrivò a mettere in discussione Rivera e Mazzola per far giocare me. Ho sempre accettato tutte le critiche, ma di una cosa sono certo: dal punto di vista tattico avevo pochi rivali. Arrivai in azzurro in un momento storico. Diventammo campioni d’Europa dopo trent’anni che non si vinceva nulla. Il più grande rimpianto della mia vita di giocatore resta la finale persa con il Brasile. Certo, era dura battere una squadra di quel livello e con Pelé che faceva qualsiasi cosa, anche colpire di testa. Ma qui viene fuori l’incontentabile che è dentro ciascuno di noi».

Al contrario, lei sembra un uomo soddisfatto.
«Non mi lamento. Ho disputato 478 partite tra Roma e Fiorentina senza contare le coppe. E 29 in Nazionale. Andavo a chiudere le linee di passaggio di cui oggi tutti parlano. Ero all’avanguardia e non lo sapevo. Mi sono trovato in stadi con settantamila persone che gridavano. Ho cantato l’inno e ho avvertito di rappresentare un Paese. Raccoglievo come oro colato le parole dei miei allenatori e poi mi trovavo solo a giocare, protagonista di qualcosa. Senza mai dimenticare che nessuno in realtà gioca da solo e se lo fa sbaglia. Forse per questo i miei compagni mi hanno sempre voluto bene».

La carriera da allenatore avrebbe dovuto essere altrettanto gratificante.
«In parte lo è stata. Avevo la sensazione che il mio istinto tattico potesse funzionare anche in panchina. Ho preso la Fiorentina in zona retrocessione nel 1981 e siamo arrivati quinti, l’anno dopo abbiamo perso lo scudetto all’ultima giornata, ho ricevuto premi e complimenti, che suppongo sinceri, per il gioco espresso. Non ero un allenatore raffinato, non sfruttavo il fuorigioco, chiedevo solo che la squadra restasse corta e compatta. Che si formassero i triangoli in modo da avere sempre diverse opportunità di passaggio. Sono stato il primo a giocare con la difesa a tre. Solo che i miei laterali non erano terzini: erano Massaro e Pasquale Iachini, due uomini d’attacco».

Poi è successo qualcosa.
«Andavo in automobile da Roma a Firenze, con il tettuccio della macchina aperto. È cominciato il mal di testa. Mi riempivo di analgesici. La domenica sono andato in panchina e mi sono sentito davvero male. Per fortuna i nostri medici hanno trovato la strada più rapida per l’ospedale di Ancona, dove sono stato operato per un granuloma subdentario che mi aveva riempito la parte frontale del cervello di pus. Ho rischiato tanto, quel giorno. E ho cominciato a riflettere. Ho capito che non valeva la pena angosciarsi per un risultato, rovinarsi la vita per questioni di poco conto. Ho pensato a tutti coloro a cui tenevo e che tenevano a me».

Però è tornato ad allenare. Anche troppo presto.
«Perché no? Conoscevo e conosco il calcio. Per questo ad Ascoli mi sono arrabbiato. Mi avevano voluto con forza, la città mi aveva accolto bene. Un giorno il presidente Costantino Rozzi in un’intervista parlò di me in termini entusiastici che trovai persino esagerati. Perdemmo con la Juventus, giocando non male. Trovai la macchina danneggiata all’uscita dallo stadio, mi arrivò una bomba carta nel giardino di casa alle tre del mattino. Alla fine litigai con Rozzi proprio perché mise in dubbio la mia competenza. Gli dissi che valutazioni del genere non potevo permettergliele e gli chiesi se lui avesse mai indossato la maglia numero dieci della Nazionale. Replicò: io dico quello che penso. E io: ma non pensa mai a quello che dice. Finì così».

C’è qualche calciatore che le ricorda De Sisti?
«Il calcio attuale è troppo distante dal mio. Eraldo Pecci mi somigliava. L’ultimo forse è stato David Pizarro. Anche se lui teneva troppo la palla».

Dunque, auguri. E complimenti per la mancanza di nostalgia.
«Preferisco i progetti. Magari quando i figli mi dicono: speriamo che tra un paio d’anni le cose vadano meglio, rispondo di non contare troppo su di me. I miei progetti ora vanno fino alla fine della settimana. Quando ci arrivo, però, penso alla settimana successiva».


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