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Santità, dieci anni fa, il 13 marzo 2013, veniva eletto Papa. Qual è il suo bilancio?
Il bilancio lo farà il Signore quando vorrà. Il modo in cui lo farà ce lo ha detto lui stesso al capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi…”. La Chiesa non è una azienda, ma nemmeno una ong e il Papa non è un amministratore delegato che a fine anno deve far quadrare i conti. La Chiesa è del Signore! A noi viene semplicemente chiesto di porci umilmente in ascolto della sua volontà e metterla in pratica. Può sembrare un compito molto semplice, ma non lo è. Bisogna sintonizzarsi con il Signore, non con il mondo.

Ma avrà pensato a un programma di governo quando è stato eletto.
Ho pensato spesso a un passaggio dell’omelia che fece Benedetto XVI nella messa di inizio del suo pontificato, il 24 aprile 2005: “In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo”. E aggiunse: “Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da lui, cosicché sia egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia”.

Le congregazioni generali, però, avevano chiesto al nuovo Papa un pontificato di riforme.
Ho partecipato alle congregazioni generali del 2005, dopo la morte di san Giovanni Paolo II, e del 2013, dopo le dimissioni di Benedetto XVI. Sono stati due grandi momenti di grazia, di crescita per tutti noi. Due occasioni importanti per confrontarci sullo stato di salute della Chiesa, in particolare sui problemi da affrontare. Sono stati descritti due scenari molto diversi. Durante le congregazioni generali del 2013, tutti quanti noi, anche io, abbiamo rivolto delle richieste molto concrete a colui che sarebbe stato eletto. Personalmente, ero molto sereno. Con pochi vestiti, lo stretto necessario, anche perché da quando san Giovanni Paolo II mi ha nominato cardinale, nel concistoro del 2001, ho sempre lasciato a Roma sia la talare filettata che quella rossa per quando andavo in Vaticano, così da non doverle portare sempre con me in viaggio. Avevo fatto la valigia pensando che sarei tornato a Buenos Aires in tempo per la settimana santa. E, invece, il mio biglietto di ritorno è stato strappato dai miei fratelli cardinali. Quello che ho fatto in questi dieci anni è stato proprio concretizzare le richieste delle congregazioni generali. Il Consiglio di cardinali, che ho annunciato significativamente proprio a un mese esatto dalla mia elezione, ha avuto questo compito. Un lavoro sinodale che si mettesse davvero in ascolto di tutta la Chiesa e quando parlo di Chiesa non intendo soltanto noi preti, che siamo l’1 per cento, ma i laici, che sono il 99 per cento della Chiesa. E questo non lo dico io, ma lo dice il Concilio Ecumenico Vaticano II nel decreto sull’apostolato dei laici, Apostolicam actuositatem. Un documento del 1965, ma attualissimo e che andrebbe fatto leggere nelle parrocchie.

Quindi un pontificato di riforme partendo dalla Curia romana.
È stato il lavoro più impegnativo, quello che ha assorbito maggiormente il Consiglio di cardinali. Un anno fa, il 19 marzo 2022, è stata pubblicata la costituzione apostolica sulla Curia romana, Praedicate Evangelium. L’ho affidata a san Giuseppe, patrono della Chiesa universale, anche perché proprio il 19 marzo 2013 ho celebrato la messa di inizio del mio pontificato in piazza San Pietro. È la terza volta che la Curia romana viene riformata dopo il Vaticano II: lo hanno fatto san Paolo VI nel 1967 e san Giovanni Paolo II nel 1988. È stato un lavoro veramente collegiale.

Però le sofferenze in questi dieci anni non sono mancate.
Non ho mai perso il sonno. A volte leggo ricostruzioni totalmente inventate. Le cose sono molto più semplici di quelle che possono apparire all’esterno. È bello che tra fratelli si abbia il coraggio di dirsi le cose in faccia, con i pantaloni, non alimentando il chiacchiericcio che uccide, uccide qualsiasi cosa. Anche i primi discepoli di Gesù non la vedevano tutti nello stesso modo ed erano dodici, un piccolo gruppo. La Chiesa non è un’orchestra dove tutti suonano la stessa parte, ma ognuno esegue la sua partitura ed è proprio questo che crea l’armonia. Dobbiamo tendere all’unità che non significa uniformità. Siamo fratelli! Dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee, il coraggio di dircele direttamente, ma poi dobbiamo ritrovarci attorno alla stessa mensa.

Cosa l’ha fatta soffrire di più?
La corruzione. Non parlo solo della corruzione economica, dentro e fuori il Vaticano, parlo della corruzione del cuore. La corruzione è uno scandalo. A Napoli, nel 2015, dissi che spuzza. Sì, spuzza. La corruzione fa imputridire l’anima. Bisogna distinguere il peccato dalla corruzione. Tutti siamo peccatori, tutti! Anche il Papa e si confessa ogni quindici giorni. Ma non dobbiamo scivolare dal peccato alla corruzione. Mai! Nella Chiesa, come nella politica e nella società in generale, dobbiamo sempre mettere in guardia dal grave pericolo della corruzione. È molo difficile che un corrotto possa tornare indietro: una tangente oggi e una domani. Per questo i mafiosi sono scomunicati: hanno le mani sporche di soldi insanguinati. Fanno affari con le armi e la droga. Uccidono i giovani e la società. Uccidono il futuro. Bisogna essere chiari: nella Chiesa non c’è posto per i mafiosi! I beati Pino Puglisi e Rosario Livatino non sono scesi a patti con la mafia e perciò hanno pagato con le loro vite.

La corruzione nella Chiesa si manifesta anche nella pedofilia dei suoi uomini.
Benedetto XVI ha avuto il grande merito di denunciare pubblicamente questo scandalo enorme quando era ancora cardinale. Tutti ricordiamo le sue parole: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”. Non ha avuto solo il grande coraggio di denunciare tutto questo quando ancora non se ne parlava tanto, quando ancora non c’era la piena consapevolezza di questo abominio, ma, sia da cardinale che poi da Papa, ha lottato con tutte le sue forze contro l’omertà e l’insabbiamento che per decenni hanno coperto chi nella Chiesa ha commesso gli abusi. Io mi sono posto sulla strada tracciata da lui. Su questo punto bisogna essere molto chiari: se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso, che rappresenta già di per sé una mostruosità, tale caso sarà affrontato sempre con la massima serietà.

Fondamentale è stato il summit mondiale sulla pedofilia del clero del febbraio 2019 e tutte le riforme che ne sono scaturite.
Mi ha colpito una cosa di quel summit. Ho chiesto ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo di prepararsi all’incontro ascoltando le vittime. Molti di loro mi hanno detto che non avevano mai ascoltato prima di allora le vittime e che hanno pianto insieme con loro: il dono delle lacrime. Questo credo sia stato il cambiamento più importante e radicale di mentalità nella Chiesa per affrontare gli abusi: partire dall’ascolto delle vittime. Per un pastore è fondamentale. Benedetto XVI aveva incominciato ad ascoltare le vittime durante i suoi viaggi internazionali. Questa condivisione del pastore: bisogna partire da qui. Nella Chiesa non c’è posto per chi si macchia di questo abominevole peccato contro Dio e contro l’uomo. Ma la pedofilia è anche un reato che la giustizia deve punire. Coprire gli abusi è una pratica abituale. Pensa che il 40 per cento dei casi di abuso avviene nelle famiglie e nel quartiere e tutto questo viene coperto. Un’abitudine che la Chiesa ha avuto fino allo scandalo di Boston nel 2002. In quel momento, la Chiesa si è accorta che non poteva più coprire la pedofilia dei suoi preti, ma nelle famiglie e nel mondo dello sport c’è ancora questa abitudine. Un altro punto che vorrei sottolineare è il problema della videopornografia infantile. Dove avviene? Chi sono coloro che hanno la libertà di fare questo senza che nessuna autorità li riprenda? È una cosa molto brutta perché la videopornografia infantile si fa in video con i bambini.

Cosa si augura per il futuro?
La pace. La pace nella martoriata Ucraina e in tutti gli altri Paesi che soffrono l’orrore della guerra che è sempre una sconfitta per tutti, per tutti. La guerra è assurda e crudele. È un’azienda che non conosce crisi nemmeno durante la pandemia: la fabbrica delle armi. Lavorare per la pace significa non investire in queste fabbriche di morte. Mi fa soffrire pensare che se non si facessero armi per un anno, finirebbe la fame nel mondo perché quella delle armi è l’industria più grande del pianeta. L’8 dicembre scorso, in piazza di Spagna, ho pianto pensando al dramma che sta vivendo il popolo ucraino. È trascorso già più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina. A febbraio sono stato in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, e ho visto gli orrori dei conflitti in quei due Paesi con le mutilazioni delle persone. Una cosa che mi fa soffrire molto è la globalizzazione dell’indifferenza, girare la faccia dall’altra parte e dire: “A me che importa? Non mi interessa! Non è un mio problema!”. Quando hanno chiesto alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, quale parola scrivere al binario 21 della Stazione di Milano dove partivano i treni per i campi di concentramento nazisti, non ha avuto dubbi e ha detto: “Indifferenza”. Nessuno aveva pensato a quella parola. Fa riflettere perché quel massacro di milioni di persone è avvenuto nell’indifferenza vigliacca di tanti che hanno preferito girare la faccia dall’altra parte e dire: “A me che importa?”. Recentemente, ho letto che la senatrice ha ricordato che ad Auschwitz non si va in gita, ma si va come a un santuario per non dimenticare la Shoah. Mi ha colpito molto perché è proprio quello che ho sentito nel mio cuore quando sono andato ad Auschwitz, nel 2016, e non ho voluto pronunciare un discorso come avevano fatto i miei due predecessori. Ho voluto pregare da solo in silenzio.

Cosa si augura per la Chiesa?
La Chiesa deve uscire, deve stare in mezzo alla gente. Penso a don Tonino Bello, un grande vescovo pugliese che stava in mezzo al suo popolo e ha lottato con tutte le sue forze per la pace. Un uomo non compreso nel suo tempo perché era molto avanti. Lo si sta riscoprendo oggi. Un profeta! È già venerabile ed è in cammino verso la beatificazione. Recentemente, hanno ripreso in una canzone anche una sua celebre frase: “Noi siamo angeli con un’ala sola. Per volare, abbiamo bisogno di restare abbracciati al fratello, cui prestiamo la nostra ala e da cui prendiamo l’altra ala, necessaria per volare”. Nessuno si salva da solo. Lo abbiamo visto anche con la pandemia. Sogno una Chiesa senza clericalismo. Lo diceva il cardinale Henri-Marie de Lubac nel suo celebre testo Méditation sur l’Église dove, per dire qual è la cosa più brutta che può accadere alla Chiesa, scriveva che la mondanità spirituale, che si traduce nel clericalismo di un prete, “sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale”. Il clericalismo è la cosa più brutta che possa accadere alla Chiesa, peggio ancora che ai tempi dei papi corrotti. Un prete, un vescovo o un cardinale che si ammalano di clericalismo fanno molto male alla Chiesa. È una malattia molto contagiosa. Ancora peggiori sono i laici clericalizzati: sono una peste nella Chiesa. Il laico deve essere laico.

E, infine, cosa si augura per il suo futuro?
Che il Signore sia clemente con me. Fare il Papa non è un lavoro facile. Nessuno ha studiato prima per fare questo lavoro. Ma questo il Signore lo sa: è successo anche con san Pietro. Pescava tranquillamente e un giorno Gesù lo ha scelto perché diventasse pescatore di uomini. Ma anche Pietro è caduto. Lo ha rinnegato proprio lui che aveva vissuto giorno e notte con il Signore, che aveva mangiato con lui, che lo aveva ascoltato predicare e che lo aveva visto compiere miracoli: “Non conosco quell’uomo!”. Come è stato possibile? Ma Gesù, dopo la risurrezione, lo ha scelto di nuovo. Ecco la misericordia di Dio con noi. Anche con il Papa. “‘Servus inutilis sum’. Sono un servo inutile”, come scriveva san Paolo VI nel suo Pensiero alla morte. Un testo molto bello che invito soprattutto i sacerdoti a leggere e meditare.

Grazie Santità.
Grazie a te e ai tuoi colleghi per il lavoro che fate. Vorrei dire una parola ai lettori del tuo giornale, ilfattoquotidiano.it: non perdete mai la speranza! Anche se vi sono successe cose brutte, anche se l’esperienza che avete avuto con qualche uomo o donna di Chiesa non è stata tanto bella, non lasciatevi condizionare. Il Signore vi aspetta sempre a braccia aperte. Vi auguro di sperimentarlo nelle vostre vite come l’ho sperimentato io tante volte. Il Signore mi è stato sempre accanto, soprattutto nei momenti bui. Lui c’è sempre. Non dimenticatelo mai! Ci prende in braccio con tenerezza e ci rialza sempre dalle nostre cadute. L’importante, infatti, non è non cadere, ma non restare caduti. Il Signore ci perdona sempre. Il Papa vi vuole bene e prega per voi. A chi prega chiedo di pregare per me e a chi non prega almeno mandatemi buone onde, ne ho bisogno. Grazie!

Twitter: @FrancescoGrana

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