Ogni alunno è libero di pranzare con alimenti diversi da quelli somministrati dalla mensa scolastica. E’ dovere della scuola vigilare e soprattutto farlo mangiare insieme ai compagni che hanno invece scelto i cibi del refettorio.
Sono i due principi cardine di un indirizzo interpretativo destinato a cambiare le sorti del Servizio Mensa Scolastica al Comune di Guidonia Montecelio.
Si tratta della sentenza numero 7957 – CLICCA E LEGGI LA SENTENZA – pubblicata oggi, martedì 13 settembre, dal Consiglio di Stato che ha condiviso le ragioni della mamma di un alunno minorenne dell’Istituto Comprensivo “Leonardo da Vinci” di Guidonia Centro.
I giudici di secondo grado hanno respinto il ricorso presentato dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dallo stesso Istituto Leonardo Da Vinci, che avevano richiesto di annullare la sentenza emessa dal Tar nel 2020. Già all’epoca i magistrati amministrativi avevano dato ragione alla mamma rappresentata dagli avvocati Giorgio Vecchione e Riccardo Vecchione di Roma. E la sentenza di oggi, in dieci pagine, mette fine al quesito che negli ultimi anni ha tenuto banco tra i genitori circa la possibilità di portare il cibo da casa.
In particolare i giudici hanno annullato la circolare del 6 settembre 2019 con la quale il Dirigente scolastico della “Leonardo da Vinci” Gabriella Di Marco aveva imposto agli studenti la fruizione obbligatoria del servizio pubblico di mensa ovvero, in alternativa, l’uscita da scuola durante il tempo occorrente per la consumazione del pasto, con il conseguente divieto, in via generalizzata, di consumare a scuola il pasto portato da casa.
Una prescrizione regolamentare considerata affetta da eccesso di potere per irragionevolezza, in quanto misura inidonea e sproporzionata rispetto al fine perseguito.
D’altronde, già il Tar aveva rilevato plurime violazioni di legge e condannato la scuola reputando fondato il ragionamento dei legali della mamma guidoniana.
Secondo il Tribunale amministrativo del Lazio, il servizio pubblico di ristorazione collettiva non è un servizio pubblico essenziale ma ha natura facoltativa essendo a domanda individuale. Di conseguenza la sua fruizione è una libera scelta dell’utente, che può liberamente approvvigionarsi per altre vie, per cui rendere obbligatorio il servizio è una violazione del principio della gratuità della scuola dell’obbligo, previsto dall’articolo 34 della Costituzione.
Nella sentenza pubblicata oggi i giudici di secondo grado condividono il ragionamento logico-giuridico seguito dallo stesso Consiglio di Stato in precedenti verdetti, come l’ordinanza cautelare numero 1884 del 2020, che a sua volta conferma l’orientamento già espresso nelle precedenti ordinanze numero 6368 del 2019 e 298 del 2020.
I concetti espressi dalla sentenza di oggi sulla base delle due ordinanze appaiono granitici.
Innanzitutto, il servizio di ristorazione scolastica va qualificato come meramente strumentale all’attività scolastica non riconducibile al diritto all’istruzione e non può dirsi strettamente qualificante il servizio di pubblica istruzione.
Inoltre l’autorefezione, ossia il pasto da casa, è esplicazione del diritto costituzionale alla scelta alimentare tutelato dagli articoli 2 e 32 della Costituzione, per cui deve avere pari dignità rispetto a qualsiasi altra scelta clinica, etica o religiosa, specie in presenza di un rischio per la salute psicologica del minore.
Concetto fondamentale è quello per cui il pasto da casa non comporta in alcun modo – di necessità – una modalità solitaria di consumazione. Anzi è dovere dell’Amministrazione scolastica garantire agli studenti la consumazione in un tempo condiviso che favorisca la loro socializzazione.
Pertanto spetta al corpo docente la vigilanza sui minori per evitare che vi siano scambi incontrollati di alimenti. Nulla di trascendentale, in quanto si tratta della stessa funzione che gli insegnanti sono chiamati ad assolvere anche durante gli intervalli del mattino, in occasione delle merende.
L’indirizzo interpretativo espresso oggi dal Consiglio di Stato è conforme ai principi già enunciati dagli stessi giudici di secondo grado nella sentenza 5156/2018 relativa al caso di un gruppo di genitori di alunni delle scuole materne ed elementari di Benevento.
Secondo l’indirizzo interpretativo della pronuncia del 2018, la decisione di interdire il consumo di cibi portati da casa limita una naturale facoltà dell’individuo afferente alla libertà personale del minore e della famiglia, a meno che non ci siano dimostrate ragioni particolari di sicurezza o decoro.
I giudici demoliscono anche l’idea che “il consumo di pasti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale”, considerata irrispettosa delle libertà.
L’inidoneità e l’incoerenza del divieto di consumo del pasto da casa in refettorio emerge in particolare dalla considerazione che, ad esempio, non viene inibito agli alunni il consumo di merende portate da casa, durante l’orario scolastico.
Perché in questo caso non viene sollevata la problematica del rischio igienico-sanitario?
Una domanda alla quale la Scuola non può rispondere, così come non può escludere a priori la sicurezza igienica degli alimenti portati da casa attraverso un regolamento.