Anni fa è uscito un film inglese intitolato “About time”, una storia familiare un po’ melliflua intorno al tema fantastico dei viaggi nel tempo.
A un certo punto della vicenda emerge un problema fondamentale: il protagonista scopre che se si reca nel passato, in un’epoca precedente al concepimento del proprio figlio, non può poi aspettarsi di ritrovare, quando tornerà al presente, quello stesso figlio.
Basta infatti una piccola modifica perché la nostra vita si svolga in modo differente, e ci porti a concepire dei figli differenti, anche con la stessa persona.
L’incontro fra un ovulo e uno spermatozoo è un gioco di minuscole probabilità, si basa su istanti e circostanze biologiche precise.
Al rientro da un viaggio nel passato il protagonista si ritroverà nella propria cucina ad abbracciare un bambino diverso, pur avendo sempre la stessa compagna.
Questo scenario di fantasia, vi sembrerà buffo, mi torna in mente spesso.
Si usa parlare dei propri figli, del loro modo di essere, della loro unicità.
Non li cambieremmo con nessuno al mondo. Sentimenti comuni e comprensibili.
Ma l’unicità di un essere umano è il risultato di una sequenza di eventi precisa, la cui origine si perde nella notte dei tempi. E quello che ha determinato questa sequenza non è sempre buono, o necessario, o utile. E non è neppure ben identificabile.
Bisogna adottare una prospettiva molto ingenua per credere che la catena di fatti che ci ha generato sia stata sempre necessaria, utile, buona e ben identificabile.
Magari la nostra nascita deriva, per una combinazione, dal sacrificio crudele di un certo numero di persone nel corso della storia. Non solo.
Una modifica minuscola può cambiare i figli che avremo, ma può cambiare anche intere schiere di esseri umani, scatenando reazioni a catena.
Siamo parte di comunità, siamo relazioni, non viviamo isolati nella foresta. I nostri gesti possono influenzare l’incontro di ovuli e spermatozoi che neanche ci riguardano.
Meglio non pensarci, si perde la testa, e poi nessuno viaggia nel tempo, dunque è per forza un pensiero inutile. O no?
Dipende da cosa vogliamo fare con questo pensiero. Possiamo per esempio fare degli esperimenti mentali.
Cosa cambieresti del tuo passato? Questa domanda compare spesso sui social, è un gioco ricorrente su Twitter.
Se potessi tornare indietro, cosa cambieresti? Rispondere sembra facile, infatti molti rispondono. Anche in modo estremo.
«Cambierei tutto, butterei via tutto, la mia vita fa schifo». O in modo circostanziato: quella storia d’amore finita male che potevamo evitare, quel percorso di studi che potevamo modificare, quella scelta di partire o di restare. Quel viaggio, quella strada buia.
E siamo anche disposti a immaginare cosa accadrebbe se potessimo cambiare il passato.
Il rischio dell’ignoto
Siamo disposti a immaginare di prenderci il rischio dell’ignoto. «Ma se modificando quella scelta tutto andasse invece a finir male?» È un rischio che ci sentiamo pronti ad assumere. Non tutti, ma alcuni di noi.
Diciamo, per gioco, un numero a caso: il trenta percento di noi sarebbe disposto a modificare una scelta del passato e a vedere come va, anche rischiando che le cose finiscano male.
Tutto questo, almeno, fino all’arrivo dei figli. Dall’arrivo dei figli in poi, qualcosa cambia.
Immaginiamo che la domanda sia: «Cosa cambieresti del tuo passato, ben sapendo che nel momento in cui la modifica viene effettuata tua figlia scompare dalla faccia della Terra, per essere forse sostituita con un altro essere umano, o forse con nessuno?»
Sempre per gioco, e a naso, possiamo dire che la percentuale di persone disposte a modificare una certa scelta del passato, se i rischi sono questi, probabilmente scende parecchio.
Forse nessuna persona con figli, e felice di averli, una volta che abbia la consapevolezza del pericolo elevatissimo di non rivederli più sarebbe disposta a cambiare il proprio passato.
Più di ogni altra cosa la nascita dei figli ci mette nelle condizioni di accettare di buon grado un congelamento dei giochi: i giochi sono fatti, e in fondo va bene così.
E dato che in realtà modificare il passato è impossibile, proviamo una specie di calma: se non altro, gli eventi così come sono, anche gli errori fatti, ci hanno regalato le persone che più amiamo.
La frase “è la madre dei miei figli” oppure “è il padre dei miei figli”, usata per giustificare relazioni traballanti, in fondo nasce da questo.
La calma dei giochi fatti, del resto, ha sempre due volti: il volto della serenità e il volto dell’abisso che preferisci non guardare.
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