Nella Guerra del Peloponneso Tucidide individuò il timore suscitato negli spartani dall’ascesa di Atene come la causa profonda che rese inevitabile quel conflitto. Secondo gli accademici e i policymakers che a Washington si rifanno al realismo, di cui lo storico greco è considerato il capostipite, 2.400 anni dopo gli eventi bellici che sconvolsero l’Ellade, anche tra Cina e Stati Uniti «il risultato inevitabile è la competizione e il conflitto. Questa è la tragedia della politica delle grandi potenze», secondo il professore e politologo John Mearsheimer.
Per il docente dell’Università di Chicago «la Cina agisce secondo questa stessa logica realista, imitando di fatto gli Stati Uniti. Vuole essere lo stato più potente nel suo cortile di casa ed, eventualmente, nel mondo». I decenni di politica di engagement «sono stati un colossale errore strategico», per cui ora «la rivalità Cina/ Stati Uniti ha più probabilità di sfociare in una guerra guerreggiata di quante ne avesse quella tra Stati Uniti e Unione sovietica. Cina e Stati Uniti sono prigionieri di quella che può essere definita solo come una nuova Guerra fredda, un’intensa competizione di sicurezza che tocca ogni dimensione del loro rapporto».
Non è la Guerra fredda
Eppure il paragone con il lungo confronto tra Stati Uniti e Unione sovietica più che analogie rivela sostanziali differenze. Al contrario dell’Urss, Pechino non ha alcuna ideologia da esportare, avendo qualificato come “con caratteristiche cinesi” il suo socialismo, continuamente adattato alla realtà cinese. Né può contare su un blocco di stati – come il Patto di Varsavia – che ne riconosca la guida. I paesi desiderosi di rafforzare i rapporti economico commerciali con la Cina sono altrettanto determinati a tenerne lontana l’influenza politica. Allo stesso tempo la Cina rappresenta per gli Stati Uniti un concorrente economico e tecnologico enormemente più competitivo di quanto non fosse l’Urss. Mentre militarmente non è ancora in grado di tenere testa agli usa.
«Capisco perché la Guerra fredda è popolare negli Stati Uniti», ha ironizzato l’intellettuale britannico Martin Jacques: «Loro hanno vinto la Guerra fredda. È l’ultima cosa che hanno vinto per davvero». E il padre della patria di Singapore, l’ex primo ministro Lee Kuan Yew, ha messo l’accento sul “senso di superiorità culturale degli americani”:
«Per l’America venire rimpiazzata, non nel mondo, ma soltanto nel Pacifico occidentale, da un popolo asiatico a lungo detestato e liquidato con disprezzo come decadente, debole, corrotto e inetto è, da un punto di vista emozionale, molto difficile da accettare. Il senso di superiorità culturale degli americani renderà questo adeguamento molto difficile. Gli americani ritengono che le loro idee – la superiorità dell’individuo e la libertà di espressione illimitata – siano universali. Ma in realtà non lo sono, né lo sono mai state. Infatti la società americana ha avuto tanto successo così a lungo non grazie a queste idee e princìpi, ma per una certa fortuna geopolitica, per un’abbondanza di risorse e per l’energia degli immigrati, un abbondante flusso di capitali e tecnologia dall’Europa e due vasti oceani che hanno tenuto i conflitti del mondo lontani dalle loro coste».
Incubo atomico
La parentesi del “momento unipolare”, con le sue guerre umanitarie e per esportare la democrazia ammantate di idealismo degli anni Novanta e Duemila, si è chiusa per i costi, finanziari e umani, divenuti insostenibili per gli Stati Uniti. E con l’opposizione all’egemonia Usa dichiarata da Pechino, in occidente l’accademia, i media e la politica sono stati riconquistati dal realismo che ha dominato durante la Guerra fredda.
Questa corrente della teoria delle relazioni internazionali, che vede il mondo come un’arena nella quale gli stati si contendono il potere e lottano per garantirsi la sopravvivenza in un sistema anarchico, per affrontare la Rpc non è stata capace di elaborare che una riedizione del containment anti sovietico.
Durante la Guerra fredda il genere umano ha avuto fortuna: con il braccio di ferro Usa-Urss sui missili a Cuba, l’olocausto nucleare è stato evitato per un soffio. Non ci resta che augurarci di avere la stessa sorte del 1962.
«Dove va il mondo: pace o guerra? Progresso o regresso? Apertura o isolamento? Cooperazione o scontro?»; secondo Xi, «oggi siamo di fronte a queste scelte». E nelle conversazioni più franche, come quella tra Dai Bingguo e l’ex segretario di Stato usa Henry Kissinger, si riaffaccia l’incubo atomico:
«Nel nostro mondo di oggi, la sofisticatezza delle armi ha raggiunto un livello allarmante, e si accumulano come montagne. La Cina e gli Stati Uniti sono entrambi stati dotati di armi nucleari, e non mancano loro nemmeno armi convenzionali all’avanguardia. In caso di guerra tra Cina e Stati Uniti, non ci sarà nessun vincitore. L’unico risultato sarà la distruzione reciproca e il mondo ne soffrirà. L’umanità ha patito abbastanza a causa di guerre disastrose e semplicemente non può permettersi un’altra guerra mondiale ancora più distruttiva e devastante. Una guerra tra Cina e Stati Uniti è destinata a devastare l’umanità. Chi provoca una tale guerra sarà condannato dalla storia».
Il pensiero del leader
Il 1° settembre 2021, il nuovo anno scolastico degli studenti cinesi è iniziato con una sorpresa: all’interno dei libri di testo erano comparse pagine e pagine dedicate al “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova èra”, che sono andate ad aggiungersi alle spiegazioni sulle teorie degli altri leader del Pcc.
Dalle scuole primarie alle secondarie il pensiero di Xi viene dispensato in pillole sempre più difficili da mandare giù, fino alla “contraddizione principale” (zhŭyào máodùn), che nella nuova èra è diventata quella tra «uno sviluppo squilibrato e inadeguato e il bisogno crescente di una vita migliore da parte della popolazione».
Nonostante un terzo dei circa 10 milioni di insegnanti risulti iscritto al partito, prima dell’ascesa al vertice di Xi, tra i docenti era invalso l’uso di sostituire all’occorrenza le ore dedicate allo studio dell’ideologia con l’aritmetica o la lingua cinese, mentre nella società «sembrava che il Pcc fosse diventato una tra le tante forze in campo, che quasi implorava l’attenzione della gente che andava allegramente per la sua strada, arricchendosi, vivendo la sua vita, facendosi largo in un mondo in cui non avrebbe incrociato quasi mai il partito», secondo lo storico Kerry Brown.
Fin quando l’economia nazionale è cresciuta a doppia cifra, a rendere accettabile la permanenza al potere ad infinitum del Pcc è bastata l’aspettativa del popolo per un crescente benessere. Ma la nuova contraddizione principale ha indotto Xi e compagni a potenziare come mai in epoca postmaoista l’indottrinamento ideologico e il controllo sociale. Il partito, che nella stagione di riforma e apertura aveva lasciato respirare la società, ha rioccupato tutti gli spazi della vita pubblica dei cittadini.
Nella nuova èra, l’indottrinamento ideologico è tornato una componente essenziale nei curriculum di ogni scuola e ateneo, dove i corsi di teoria politica mirano plasmare nuove generazioni «con una base morale, intellettuale, fisica ed estetica a 360 gradi, e con spirito laborioso». Team di ispettori del partito vengono inviati a soprintendere al lavaggio dei cervelli anche nelle università più prestigiose, come la pechinese Beida e la shanghaiese Fudan, i cui rettori e segretari di partito sono scelti dal Comitato centrale assieme al Consiglio di Stato e hanno il rango di viceministri.
“Civilizzazione spirituale”
Questa compressione della libertà di pensiero nasce dal presupposto che «il compito fondamentale delle università è coltivare studenti con valori positivi e moralmente integri», e «rafforzare la loro fiducia nel percorso, nella teoria, nel sistema e nella cultura del socialismo con caratteristiche cinesi e promuovere il patriottismo».
Dopo il XIX Congresso, a partire dal 2018, nelle strade, negli uffici pubblici e nei centri commerciali di tutto il paese sono spuntati come funghi migliaia di nuovi “centri per la pratica della civilizzazione della nuova èra”. Si tratta di strutture che forniscono servizi, organizzano attività ricreative e si occupano dell’indottrinamento politico. Sono i volontari a guidare i cittadini alla scoperta di questa civilizzazione in stile Xi Jinping, accudendo i bambini lasciati nei villaggi rurali dai lavoratori migranti, ripulendo i quartieri delle grandi città e perfino organizzando corsi di cucina tenuti da chef stellati.
Alle attività assistenziali e ludiche si accompagnano classi, discussioni, gruppi di lavoro sull’ideologia.
Questi centri sono sotto la supervisione della Commissione centrale di indirizzo per la costruzione della civilizzazione spirituale – istituita nel 1997 – che, assieme al Gruppo dirigente centrale per la propaganda e il lavoro ideologico – creato nel 1957 –, dà forma e sostanza all’ideologia ufficiale, disseminata dal Dipartimento di propaganda attraverso i suoi uffici in ogni angolo del paese.
Le direttive della Commissione mirano a plasmare nuovi cittadini con nuove abitudini, cinesi modello obbedienti al partito, ai suoi dettami e ai suoi divieti, tra cui quello di sputare, di mangiare in metropolitana, di portare a spasso i cani senza guinzaglio. A Pechino migliaia di controllori sono incaricati di sovrintendere al rispetto di queste norme.
Il secolo dell’umiliazione
Il patriottismo promosso dalla leadership fa breccia sul popolo non solo perché viene diffuso a media unificati, ma anche perché promette il definitivo riscatto dal “secolo dell’umiliazione” (1839-1949), un periodo di violenze, miseria e devastazioni mai vissuto da nessun altro grande paese in epoca contemporanea.
Gli oltre cento anni iniziati con la Prima guerra dell’oppio (1839-1842) e l’imposizione alla Cina dei trattati ineguali da parte delle potenze imperiali hanno determinato anzitutto il collasso finanziario, politico e amministrativo dell’ultima dinastia, i Qing (1644-1911), contro la quale la sola rivolta contadina dei Taiping (1850-1864) ha provocato almeno 20 milioni di morti.
Poi, prima di concludersi con la resa dei conti tra maoisti e nazionalisti (1946-1949), hanno visto scorrere l’occupazione giapponese (1931-1945), ritenuta responsabile dell’uccisione di milioni di civili cinesi e precorritrice del nazismo con gli esperimenti su cavie umane e la guerra biologica, condotti dalla famigerata Unità 731 dell’esercito nipponico.
Il secolo dell’umiliazione è anche all’origine della cultura strategica del Pcc, secondo cui la Rpc è obbligata a potenziare le sue forze armate per difendersi da una nuova minaccia, rappresentata oggi dagli Stati Uniti.
Questo passato viene interiorizzato dai cinesi sui banchi di scuola, nei musei come quello sul massacro di Nanchino, attraverso centinaia di film sull’occupazione giapponese. Il partito gli contrappone la narrazione di una Rpc che sta per diventare finalmente “ricca e forte”, e che pretende di essere rispettata come una grande potenza.
Il patriottismo figura anche tra i “dodici valori fondamentali del socialismo” da integrare nello “stato di diritto socialista”, in tutte le leggi e i regolamenti del paese, perché il Pcc punta a combinare il governo in base alla legge con quello secondo virtù, di tradizione confuciana.
Questo ricorso alle virtù morali – per favorire l’unità tra governanti e governati e il mantenimento dell’ordine nella società –, assieme al dominio assoluto del partito sull’azione amministrativa e all’enorme concentrazione di poteri nella leadership, ha fatto ipotizzare la nascita di un “Leviatano virtuoso”.
Il nazionalismo è interclassista e intergenerazionale. Tuttavia i suoi alfieri sono i giovani del ceto medio che, cresciuti in un paese prospero, non hanno memoria né dei “tre anni di carestia” (che, in conseguenza del Grande balzo in avanti, fecero milioni di morti tra il 1959 e il 1961, ndr) né dell’“incidente del 4 giugno” (nome ufficiale del massacro di Tiananmen del 1989, ndr) e la cui identità culturale e politica nella nuova èra viene plasmata, dalla pubblica istruzione e dai media, come contrapposta a quella occidentale.
Disuguaglianze destabilizzanti
Nel 2019, il coefficiente di Gini registrato dall’Ufficio nazionale di statistica era 0,465, in leggero calo sia rispetto all’anno precedente (0,468) sia alla media (0,474) degli anni 2003-2019. Applicando lo stesso coefficiente introdotto dallo statistico italiano non alla distribuzione del reddito, ma a quella della ricchezza finanziaria e immobiliare, risulta che nel 2020 la Rpc ha fatto registrare un poco lusinghiero 0,704: il 30,06 per cento della ricchezza del paese concentrato nelle mani dell’1 per cento della popolazione. Il socialismo con caratteristiche cinesi ha avvicinato pericolosamente la Rpc al resto del mondo (capitalista), dove mediamente nello stesso 2020 l’1 per cento di miliardari aveva in tasca il 37,5 per cento della ricchezza.
Alcuni dei nuovi cresi cinesi hanno accumulato i loro tesori nell’ultimo ventennio grazie all’economia digitale. Tra i dieci più ricchi nel 2021 figuravano Zhang Yiming (52,8 miliardi di dollari), fondatore di ByteDance (sviluppatrice della piattaforma di condivisione video TikTok e dell’aggregatore di notizie Toutiao); Zeng Yuqun (49,7 miliardi di dollari), presidente del produttore di batterie agli ioni di litio Catl; Ma Huateng (49,2 miliardi di dollari), amministratore delegato di Tencent (ideatrice di WeChat); Jack Ma (39,6 miliardi), padre del colosso del commercio elettronico Alibaba; e Huang Zheng (35,6 miliardi di dollari), creatore di Pinduoduo, un altro gigante dell’e-commerce.
La politica del “benessere comune” muove dalla consapevolezza che il processo di rivoluzione tecnologica e industriale rischia di acuire ulteriormente le disuguaglianze, violando il patto non scritto che, dopo la repressione di Tiananmen, ha legato il Pcc a una parte della società, che ne ha accettato il governo sine die in cambio del costante miglioramento degli standard di vita.
L’intervento redistributivo del governo è indispensabile, perché – secondo i policymakers cinesi – le forze di mercato non sono in grado di invertire il crescente divario di ricchezza e la polarizzazione sociale, accentuata ulteriormente dall’abbondanza di liquidità derivante dai quantitative easing delle principali economie.
Cala il sipario sul denghismo
Tra le politiche del “piccolo timoniere” che ha introdotto in Cina l’economia di mercato e quelle del segretario che ha inaugurato una nuova èra si registra una sostanziale discontinuità. Diversamente dall’era di Deng – quando arricchirsi era considerato “glorioso” senza se e senza ma –, con il “benessere comune” l’accento viene posto sulle politiche di redistribuzione.
Inoltre la nuova strategia punta a cancellare in parte la decentralizzazione denghista. La promozione attraverso il gòngtóng fùyù di uno sviluppo bilanciato tra le diverse aree del paese si traduce in un rafforzamento del controllo del partito sulle finanze dell’esecutivo e in un’ulteriore centralizzazione del sistema fiscale, nonché nell’espansione dell’autorità del Pcc e del governo centrale rispetto a quelli locali in un’ampia gamma di politiche: ambiente, edilizia residenziale, istruzione, industria, welfare. Infine, il “benessere comune” mira ad allargare la regolamentazione delle imprese private, in particolare i giganti hi-tech.
Lanciando la parola d’ordine del “benessere comune”, il partito – dopo oltre un lustro di squilli di tromba e rullio di tamburi – ha messo da parte la retorica da grandeur che aveva accompagnato la nuova via della Seta, Made in China 2025 e gli altri ambiziosi progetti di Xi Jinping (che proseguiranno in maniera più discreta, tra ostacoli interni e opposizioni esterne), per abbracciare una strategia orientata sulle persone, che focalizza le politiche e l’attenzione del Pcc sugli squilibri sociali del paese.
Il testo è estratto dal nuovo libro di Michelangelo Cocco, Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci editore, 2022)
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