Roma Capoccia
L’idea è di Luciano Violante e punta a formare la classe del futuro con uno sguardo all’innovazione: tra ingegneri per l’elettrificazione, specialisti di cloud, esperti di deep learning. I maschi sono tantissimi, le donne quattro, ma si guarda ai prossimi anni
Sono in trenta ad aver scelto il primo liceo digitale d’Italia. Trenta alunni è il numero perfetto, d’immaginario filmico… Che fa già sognare una Notte prima degli esami nell’aula di robotica. Siamo all’Istituto Matteucci di Roma, in testa nella sperimentazione del nuovo liceo. “Mi piacerebbe avere un banco come fosse un grande tablet: uno schermo con tutte le funzioni da cui vengono fuori i libri in digitale”. Così parla Carlo, tredici anni.
Sognano il robot umanoide di Musk, s’interrogano sulla vita nello spazio, ma partono sempre dal banco, eterno custode di saperi e segreti, depositario di un’educazione sentimentale lunga cinque anni. Carlo ci racconta il perché della sua scelta. Vuol fare l’ingegnere, come la maggior parte dei suoi compagni di classe, e ha un apparecchio acustico che dal cervello trasmette vibrazioni e informazioni all’orecchio: “Sono una specie di cyborg”, dice, “e spero che scienza e tecnologia possano aiutare in futuro l’umanità”. Ad averlo convinto della scuola è stata l’ansia di futuro da sé vissuta. Fondamentale in quella decisione un po’ leggera, spesso seccante, di cui qualcuno comunque si pente. Ma Carlo è sicurissimo. Nato sordo, l’intelligenza artificiale l’ha soccorso. E lui le è riconoscente. È un teenager tecno-ottimista e ha da poco conosciuto i suoi nuovi amici, tutti appassionati d’informatica.
Il liceo digitale, ideato da Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine, è sostenuto dal ministero dell’Istruzione, dai vertici e dai tecnici di Leonardo. In questi nostri anni Venti, in cui all’appello mancano oltre un milione di esperti digitali, i trenta scolari ci sono. Rispondono “presente”, affiancati per cinque anni dal colosso industriale che li introduce ai mestieri di domani. La scuola, intanto, li chiama a raccolta nella zona di Casal Boccone, dov’è la succursale dell’Istituto tecnico Matteucci, in via Rossellini. “Abito a Talenti”, dicono quasi tutti i ragazzi cresciuti a Monte Sacro Alto, in quella seconda Roma verde e cortese. Periferica e aggraziata per effetto del fiume Aniene.
Passeggiando coi liceali, tutti in camicia bianca per la presentazione del corso, si vede che a popolare la classe son soprattutto maschi (a proposito di banchi e sentimenti). Le ragazze sono solo quattro. Ma tutti – maschi e femmine – hanno fede negli iscritti a venire. Sembra che le donne continuino a preferire lettere e filosofia. Eppure, parlando coi pimpanti maschietti che ben poco hanno di nerd (complici le camicie bianche in luogo delle felpe), si coglie entusiasmo per una materia strana. Astrusa, ma divertente. Forse non se l’aspettavano… “L’altro giorno la prof ha spiegato Socrate”, racconta un tipetto, “quello che dice che tu non è che sai perché sai, ma sai perché sai che non sai”. Che tuffo al cuore. Per studiare filosofia, qui, non si aspetta il terzo anno. Anche se loro per i primi due la chiamano “laboratorio del pensiero” dove “laboratorio” è un evidente calco dell’istituto tecnico.
Alla base del progetto, infatti, c’è la volontà di scrollarsi quel tic italiano di pensare alla tecnica in opposizione all’intelletto. Come se il pil non avesse disperato bisogno di tecnici, come se Aristotele fosse monopolio di giudici e avvocati. L’obiettivo, invece – spiega Alessandro Profumo, ad di Leonardo – è di formare a tutto tondo ingegneri per l’elettrificazione, specialisti di architetture cloud, esperti di deep learning… In sintesi, di sincronizzare l’Italia col presente. E il tutto parte da questi piccoli appassionati di macchine.
Giulio nel liceo digitale ha trovato casa sua. È uno dei pochi a non abitare “a Talenti”. Viene da Guidonia. Ma sotto sotto sogna di vivere in the machine. Saranno i primi effetti di Socrate se oggi s’interroga su Alexa: “Chissà se è una persona, quando le parlo penso a lei come a un’amica, chissà se avrà mai un’anima”. Chissà. E chissà se mai si potrà avere un robot per amico. O per compagno di banco. Chissà.