L’acqua scorre. Le pozzanghere si aprono in buche, diventano stagni dove entrano i secchi. C’è pioggia, c’è freddo e c’è miseria. Una miseria umana senza orizzonte. Il luogo non ha un nome, tutti la chiamano la baraccopoli di Castelvetrano.
È nello stesso paese in cui è cresciuto Matteo Messina Denaro, capo di Cosa nostra e latitante per trent’anni fino al 16 gennaio scorso, ma chi ci vive non sa minimamente chi sia, o almeno così dicono. A dire il vero, non sanno neanche il nome di chi saltuariamente gli dà un lavoro. Lo chiamano “padrone” l’uomo che arriva e che li accompagna in mezzo ai campi a raccogliere olive, arance o limoni. Lo chiamano “padrone” appunto, non “datore di lavoro”, non “titolare” e neanche “capo”, ma proprio “padrone”, come al laccio di qualcuno. Bestie in mezzo agli umani. E da bestie vivono. La baraccopoli è isolata grazie a un recinto di immondizia che avvolge le mura di quello che una volta era un cementificio. A quattro minuti di auto c’è Campobello di Mazara, dove invece il capomafia si è nascosto negli ultimi mesi. Le auto dei Ros schizzano in mezzo alla strada. Qui è da anni che nessuno si ferma. Nel paese dove si bisbiglia e nessuno vede, la cecità sembra un problema che attanaglia tutti: da paesani alle istituzioni in un groviglio di alzate di spalle e parole che muoiono in bocca.
«Matteo Messina Denaro lo avete mai visto», chiedi. E loro rispondono: «Qui non è mai passato, neanche a prendere il caffè». «Ma della baraccopoli qualcuno si è mai interessato?», domandi di nuovo. E loro rispondono quasi allo stesso modo: «C’erano dei soldi stanziati dalla regione Sicilia, ma poi non so».
La porta dell’inferno
I carabinieri cercano le amanti, perquisiscono le case, e qui in mezzo a un campo i cancelli ai lati danno accesso all’inferno. Un ragazzo arriva tutto concitato: «No, non puoi entrare». Inizia una trattativa serratissima, fatta di dubbi e presunte invasioni. Sigarette cedute e fumate in mezzo alla pioggia che le fa consumare con più foga. Sta calando la sera, l’unica luce arriva dai bidoni in ferro. Fiamme danzanti che coprono i volti di chi cerca di ficcarci la testa e respingere il freddo «Non chiami la polizia?», chiede in un italiano da decifrare. Si accerta con lo sguardo. Facciamo qualche passo dentro, ci avviciniamo, ma arriva un ragazzo. Avrà trent’anni o poco più. «Amico, qui non si entra».
Inizia una seconda trattativa, questa volta più estenuante. Ha collane d’oro appese al collo, una felpa larga e un cappello in testa. È vestito così bene da stonare con il contorno disgraziato: «Tornate domani alle 11.30 del mattino. Adesso è sera, qui la sera non si può stare».
Ore 21.10. A Campobello i Ross prendono i cassetti di una cucina e svuotano tutto per terra. Il rumore del ferro si infrange sul pavimento e riempie il silenzio di un paese dove solo i curiosi vogliono dire la sua: «Qui? Non ci viveva nessuno da anni». Ma siete sicuri? Viene da chiedere: «Sicurissimi e poi l’identikit non era uguale all’originale», rispondono in un moto di risentimento contro tutti: i media che assediano il paesino, le Istituzioni che incolpano i fiancheggiatori. Persino loro stesso che sono stati così ciechi da pranzare accanto al mostro per poi dire: «Salutava sempre, molto educato».
Prefettura
Ore 11,15 del giorno dopo. La pioggia è cessata. C’è fango e lentezza della mattina. Tutto è immobile, la raccolta delle olive è finita da due mesi e chi è rimasto l’ha fatto per paura del mondo fuori dal cementificio. Le forze dell’ordine sono ferme in vicolo San Vito e cercano con il georadar qualcosa che possa aiutare loro a ricostruire la via di Messina Denaro. Alla baraccopoli ci sono solo ragazzi, hanno tutti all’incirca trent’anni. All’interno della baracca c’è un piccolo spaccio, vende bagnoschiuma, birra, ma anche pasta e cavetti per ricaricare i telefoni.
«No, qui non potete venire», fa l’uomo che si trova dentro. Poi esce, si ficca gli occhiali in faccia ed esclama: «Ciao fratello» e ride contento. Alcuni escono da queste casupole fatte con travi di legno ed eternit. «Io sono qui da otto anni e lavoro nei campi». Se chiedi quanto vengono pagati, uno risponde: «Vai a chiedere tu e vediamo che rispondono». Si prende i vestiti, tira la giacchetta con le mani come a volerla strappare, indica le scarpe zuppe di pioggia: «La vita senza soldi che vita è? È questa vita».
È un reticolo di vie che si incrociano. Alcune baracche sono chiuse con il lucchetto, sono quelle degli emigrati in altre regioni in cerca di campi da lavorare o di frutta da raccogliere. Qui nel periodo di grande stagione si arriva a 1200 persone. Prende un ramo secco e lo spezza. Al campo lo chiamano Prefettura perché tutti lo prendono in giro: «È da anni che pensa di avere i documenti». Scaccia le risate con un gesto del braccio e continua a spezzare la legna da mettere dentro il bidone: «Devo riscaldare l’acqua della pioggia per fare la doccia». Prefettura è una di quelle persone che ride per sfinimento, ciò significa che qualsiasi cosa esca dalla sua bocca, brutta o bella o senza alcun significato specifico, viene detta ridendo. C’è chi lo chiama il riso degli stolti, chi dei vinti dalla vita. «Vieni, ti faccio vedere casa», s’incammina.
Porta due paia di jeans, uno sopra l’alto. Dentro è impossibile stare in due. Uno si piazza vicino al letto e l’altro all’entrata. «Mangio quando ho i soldi», poi si tira le tasche fuori dai pantaloni per mimare che non ne ha. «Ma c’è Dio». Prefettura apre un cassetto e dice: «Ho questo per chiedere aiuto». È un tesserino con scritto sopra un numero, accanto appare in stampatello la parola CAPORALATO. Prefettura del caporalato non sa nulla, ma «buono per documenti», afferma con il suo ridere svuotato. Lo ripone. È un tesoro nascosto in mezzo agli indumenti. Il bene più prezioso che ha, l’unico che ha. Quel foglietto e la lanterna a energia solare che non si può accendere durante il giorno perché altrimenti la notte non funziona. Ci sentono mentre tentiamo un confronto sulle condizioni di lavoro, una voce arriva dall’altra capanna, parlano in mandinka. «Non vuole che tu stia qui, ma lui è mio fratello e quindi gli ho detto che puoi stare». Guardiamo il soffitto, è un tetto fatto con strati di coperte: «Non voglio prendere freddo».
I pochi che ci vedono
Prefettura decide che è tempo di uscire dalla baracca, ma anche di farmi vedere la parte dell’accampamento che si può vedere. Una parte calpestabile e l’altra no. Noto alcuni ragazzi. Hanno il volto basso, uno di loro particolarmente emaciato. Si infilano in un cunicolo e spariscono agli occhi. Incontriamo un po’ di gente che ascolta la musica a tutto volume. Poi noto un’altra ragazza, questa volta giovanissima. Giacchetto bianco, cuffietta in testa e capelli nero corvino.
Leo Narciso, dell’associazione di Libera, sta cercando di prendere nota di quel che dovrà portare la prossima volta, non fa in tempo a osservare il via e vai che esclama: «Ecco, si stanno prendendo anche la parte buona». Passano una manciata di minuti e un gruppo esce dal reticolo di vie. Alcuni eleganti, altri stravaganti. Arriva un ragazzo, in testa un cappellino con delle rane disegnate che ridono: «Ehi fratello, tutto bene?». Il tono neutro, un modo per dire “Io so che ci siete e voi sapete che noi ci siamo”.
Leo Narciso spiega che i ragazzi vengono qui a comprare il crack e che, invece, le ragazze si prostituiscono in cambio di droga. Passa uno che riconosce: «Ciao Vito», gli dice Leo Narciso e quello borbotta un saluto di risposta. «Almeno capisce che l’ho visto e l’ho pure riconosciuto»: Leo Narciso pare sia uno dei pochi che vede e vede pure troppo a Campobello di Mazara.
E infatti è l’unico che si occupa della baraccopoli ed è uno dei pochi che tenta di sviluppare una certa cultura dell’antimafia: «Ad alcune domande non so che rispondere, ad alcuni atteggiamenti non ho una risposta proprio. Non ho risposte certe su Messina Denaro e non so perché tutto questo muta per non mutare mai. Abbiamo cercato soluzione ma tutto ha portato a un peggioramento».
Le fiamme
Una parte è bruciata. Prefettura alza il braccio in semicerchio per avvolgere la zone che vuole raccontare: «Una sera è arrivato un sacco di fumo, ho visto le fiamme. La gente scappava, ma ovunque. C’era un incendio ed è morto, lui era come un fratello». Leo Narciso continua la cronaca dei fatti: «Era settembre 2021. Lui si chiamava Omar Baldheh. Era tornato dalla raccolta delle olive, era così stanco che quando le fiamme si sono alzate lui non si è accorto di nulla, non lo hanno svegliato neanche le urla di chi abita qui dentro. Lo hanno ritrovato in posizione supina, carbonizzato». Indica il punto esatto: «La cosa più assurda è che hanno avvertito il fratello, quello è arrivato. Uno della polizia ha detto «Sono proprio diversi da noi. Guardalo, gli è morto il fratello e manco piange». La verità è che gli avevano detto di un semplice incidente, quando gli hanno spiegato che era morto si è messo a piangere. Eccome».
Silenzio, guardiamo il punto esatto dove è successo. Prefettura spezza un ramo: «È morto arrostito, come un pollo». Mette il legno dentro il bidone: «Speriamo che sia in paradiso». Lui forse sì. Chissà se ci andremo noi.
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