Roberto Salomone è il fotogiornalista che ha immortalato l’orrore sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Che ha scattato le foto dei corpi recuperati dal mare e il volto sofferente di Vincenzo Luciano, il pescatore che li ha trainati a riva. Immagini crude, che fanno male ma che, lui dice, “devono essere viste”. Perché una tale tragedia va raccontata fino in fondo, per capire davvero.
Non è facile guardare quelle foto, non oso immaginare cosa sia stato per te scattarle. Cosa hai pensato in quei momenti?
Mi sono trovate più volte a dover documentare tragedie dell’immigrazione, ma era la prima che mi trovavo di fronte una scena così drammatica sulle nostre coste. Mi era capitato in Medio Oriente, mai in Italia. La cosa straziante è stata l’attesa: aspettare ore che venissero a portar via quei corpi. La spiaggia di Steccato di Cutro è enorme, sono circa 5, 6 km di bagnasciuga. Io ero lì con un altro collega e il pescatore ritratto nelle foto, Vincenzo Luciano. Avendo dovuto attendere così tanto tempo i soccorsi abbiamo anche avuto tanto tempo per pensare, riflettere a quanto fosse ingiusto morire così. Erano tutte morti evitabili, e questo pensiero è stato devastante. Ero tornato da pochi giorni dalla Turchia dove avevo documentato il terremoto, e anche lì era stata un’esperienza drammatica. Credo fermamente che da fotogiornalista sia mio dovere far vedere quelle foto, documentare l’orrore fino in fondo, nella sua crudezza. Tanti mi hanno scritto dicendomi che erano immagini troppo forti, criticandomi. Ma io credo che una narrativa a metà di una tale tragedia non si possa fare. Se vogliamo fare capire fino in fondo, dobbiamo mostrare non solo i pigiami, i rottami delle barche, ma anche il cadavere di un ragazzo di 23, 24 anni morto sul bagnasciuga di Steccato di Cutro.
Posso chiederti se hai scattato foto di – o visto – corpi dei bambini annegati?
Sì, la sera prima della foto che ho scattato (per un servizio del Guardian che però per policy non pubblica foto di cadaveri) insieme a Vincenzo, che ha individuato quasi tutti i corpi, abbiamo assistito al recupero di una bambina che avrà avuto 9-10 anni. In quel caso mi sono fermato: era senza vestiti, straziata, non avrebbe avuto senso scattare perché non le avrei mai potuto pubblicare. Nel nostro lavoro devi avere la sensibilità, più che la bravura, di capire quando ti devi fermare.
Cosa hai visto negli occhi di quei pescatori che hanno “raccolto” l’orrore?
Loro stati il primo soccorso di queste persone. Anche se la maggior parte dei corpi tirati su dalle onde erano già deceduti. Ma nei loro occhi, soprattutto in quelli di Vincenzo, si leggevano l’impotenza, la rassegnazione e l’enorme dispiacere: da pescatore, la prima cosa che fai in mare, se c’è qualcuno in pericolo, è salvarlo. Principio cui dovrebbero attenersi anche i nostri politici. Nel suo sguardo c’era la rassegnazione di non aver potuto fare di più. Ad un certo punto, si vede nella foto, si è inginocchiato per l’enorme sforzo fisico fatto. Ti assicuro che tirare fuori un corpo, da quella risacca così forte, è difficilissimo. Aveva legato la cima alla caviglia del corpo e lo ha tirato fuori. C’era in lui anche tanto orgoglio per essere riuscito a restituire alla famiglia un corpo che avrebbero potuto piangere, unica cosa che rimane a queste povere persone. Quindi in lui vedevo rassegnazione ma anche la fiera consapevolezza di averlo voluto rifare altre mille volte. Perché la gente di mare deve salvare le persone. E non solo loro dovrebbero farlo.
Scrivi a commento di quelle foto: “Così si continua a morire in mare e credo davvero che il fotogiornalismo abbia il dovere di mostrare, anche attraverso immagini inquietanti, ciò che accade intorno a noi”. Questo è ciò che ti ispira e ti ha spinto a diventare fotogiornalista?
Ho avuto la fortuna di studiare a Roma con Angelo Turetta, carissimo amico che mi ha fatto capire l’importanza della fotografia documentaristica. Apro una piccola parentesi: negli anni del Liceo, quando a Napoli si faceva “filone” per saltare le interrogazioni, io non andavo a giocare a pallone con gli altri ma con la macchina mi perdevo a fotografare Napoli. La mia città è stata una palestra perfetta per il mio occhio di fotografo, perché offre il meglio e il peggio dell’umanità.
Da Cutro alle manifestazioni antifasciste al terremoto in Turchia, scegli tu sempre dove andare o cosa scattare, o vai dove ti chiamano? Come funziona il tuo lavoro?
Il lavoro da free lance è molto complesso. Spesso, come è successo in Turchia, parto senza avere commissioni, mosso da curiosità personale (in fotografia se non sei curioso è tempo sprecato). In quei casi fai le foto e poi cerchi di proporle alle testate, consapevole del fatto che se anche non le pubblichi subito è un evento talmente grosso che averlo in archivio è comunque un bene. A Cutro sono partito di getto, senza avere una commissione ma mentre ero in viaggio mi ha chiamato il Guardian per chiedermi se ero disponibile a lavorare per loro.
Nel tuo lavoro si deve sempre mantenere un atteggiamento super partes o è giusto anche schierarsi?
Questa domanda è molto interessante, perché rimanere impassibile è comunque impossibile. Nel momento in cui scatti qualunque foto, quando decidi cosa inserire nell’inquadratura, inevitabilmente scegli cosa lasciare e cosa togliere, quindi ti stai schierando. La cosa fondamentale è riuscire a canalizzare le proprie emozioni. Nel caso di quel ragazzo sulla spiaggia di Cutro, la rabbia, la frustrazione, la tristezza andava “canalizzata” in una buona foto che da fotografo speri possa arrivare a qualcuno. Che è poi lo scopo del fotogiornalismo. Anche se so che una foto non può cambiare le cose, se pure avrò dato un minimo contributo per aprire un dibattito più ampio sulla questione sarà già una piccola vittoria. Ogni foto resta comunque sempre un’idea, una scelta, di chi l’ha scattata.
Helmut Newton diceva: “Il desiderio di scoprire, il gusto di catturare e la voglia di emozionare: tre concetti che riassumono l’arte della Fotografia”
Esatto: far scaturire una emozione, positiva o negativa, questo è il punto. Per quello ho scritto quel commento accanto a quelle immagini di Cutro, perché non sono a favore delle “narrative a metà”: quella tragedia non la puoi raccontare soltanto con i vestiti e i resti della barca a mare. Sarebbe un racconto incompleto, Alla base del fotogiornalismo c’è l’obiettività e la necessità di mostrare scena drammatiche. Ovviamente il fotografo, grazie alle proprie competenze tecniche, cerca di non scadere mai nello splatter. Se avessi per esempio fotografato il cadavere in primo piano, con un angolatura diversa, sarebbe stata un’altra cosa.
Tra guerre, politica e disastri, c’è tanto della tua Napoli: luoghi e soprattutto facce. Quanto la ami e cosa vorresti rendere della tua terra, della tua gente, con le tue foto?
Napoli è un amore viscerale e spesso mi trovo a lavorarci per testate internazionali. Oggi poi è sulla cresta dell’onda anche da un punto di vista editoriale e cinematografiche. È come se stesse avvenendo una sorta di “Risorgimento partenopeo”. Napoli mi ha formato tantissimo e quello che cerco di trasmettere con le mie foto è il senso di umanità della gente, non solo di Napoli ma di tutti i sud del mondo. Ovviamente sarebbe ipocrita parlare solo degli aspetti positivi di Napoli, ce ne sono anche tanti negativi.
C’è un servizio di cui sei particolarmente orgoglioso?
Un servizio cui sono molto legato è quello realizzato in Molise, nella “Fonderia Campane Marinelli”, dove si costruiscono campane fin dal Medioevo. Sono la terza fonderia più antica al mondo e ho scoperto questo posto per caso, perché in Molise si pensa che non succeda mai nulla, invece una mattina mia mamma sentì una cosa per radio che riguardava questa fonderia e il giorno dopo sotto casa comparve una scritta sul muro “Molise is not real”. Fu un segno: mi sono incuriosito e mi sono detto: ‘Andiamo a vedere cosa fanno’. A quel punto mi si è aperto un mondo: sono entrato in una realtà senza tempo, con questi giganti che costruiscono campane senza l’utilizzo di tecnologie moderne. Il mastro campanaro utilizza solo il suo orecchio per valutare il suono della campana. È una di quelle storie che mi è rimasta dentro, il mio servizio è stata pubblicato tante volte, anche all’estero. In Germania, in Spagna, sul New York Times.
E uno che non rifaresti?
Forse le volte in cui mi sono ritrovato a fotografare ministri o politici. Ho sempre “sentito” meno entusiasmo, perché viene a mancare una qualità fondamentale che si deve creare tra il fotografo e il soggetto: l’empatia. Ecco, quella nel mio caso non si è mai creata con personaggi istituzionali.
Un personaggio che vorresti fotografare?
Tanti, se potessi tornare indietro nel tempo Dostoevskij, perché sono un grande amante dei suoi libri.
Pensavo mi dicessi Toni Servillo, visto l’amore per Napoli
Lui l’ho fotografato eccome, persona molto colta e interessante. Ecco, avendo lavorato con lui, ti dico che mi farebbe molto piacere fotografare anche Paolo Sorrentino, visto il legame tra i due. Lui è stato uno degli artefici di questo “Risorgimento partenopeo” di cui parlavamo prima. Ha saputo dare un’immagine diversa della mia città.
Il servizio che vorresti realizzare domani, se potessi scegliere e partire?
Andare in Islanda e Patagonia, per perdermi nella loro sconfinatezza e natura estrema. Molto spesso mi commissionano lavori in cui mi dicono cosa fotografare. Invece potersi ritagliare del tempo per se stessi, per fotografare un posto a modo tuo, con i tuoi tempi, è un privilegio che negli ultimi tempi mi è mancato.
Confucio diceva che “un’immagine vale più di mille parole” e Isabelle Allende, scrittrice tra le più amate, sostiene che “Una bella fotografia racconta una storia, rivela un luogo, uno stato d’animo, ed è più potente di pagine e pagine scritte”. Sei d’accordo?
Sì assolutamente: la potenza iconografica è devastante. Peccato che negli ultimi anni si sono posti sempre più paletti nel nostro lavoro. Si tende a voler nascondere, a volersi nutrire di una informazione fotografica pilotata, ammorbidita, anestetizzata. Ma così non va bene: una immagine è bella, e vale, per quello che è. Non la devi in nessun modo addolcire, edulcorare o si perde il senso del fotogiornalismo. Un’immagine fotografica può essere molto più potente di una K 47, perché arriva a tutti, e può far malissimo. Penso alla famosissima foto di Kevin Carter della bambina denutrita con dietro l’avvoltoio che vinse il premio Pulitzer e fece aprire gli occhi al mondo su ciò che stava accadendo in Africa, la povertà, la carestia, le morti per malnutrizione. Forse sarò naif ma resto dell’idea che la fotografia abbia il potere di cambiare il mondo. O almeno le coscienze.