Burnout. Una patologia spesso silenziosa e sottovalutata e che può colpire tutti i professionisti sanitari e socio-sanitari.
La sindrome del burnout – si legge in uno studio edito dalla Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche – è descritta come una perdita di interesse nei confronti delle persone con le quali l’operatore svolge la professione. È definita come condizione caratterizzata da esaurimento emotivo (esaurimento delle risorse e diminuzione dell’energia), depersonalizzazione (atteggiamenti e sentimenti negativi, insensibilità e mancanza di compassione) e mancanza di realizzazione personale (valutazione negativa del proprio lavoro relativo a sentimenti di competenza ridotta) (Maslach & Leiter, 2000).
Si tratta di un processo inconsapevole che colpisce prevalentemente le professioni d’aiuto con un peggioramento degli atteggiamenti comportamentali e una conseguente riduzione della qualità nello svolgimento del proprio lavoro (Ibidem). La sindrome di burnout è ad oggi ancora poco conosciuta e riconosciuta nei contesti delle professioni di aiuto, nonostante siano passati decenni dalla prima identificazione.
Negli infermieri (ma anche negli altri professionisti sanitari e socio-sanitari – ndr) risultano livelli più elevati di burnout, rispetto ad altri professionisti della salute, correlati al contatto diretto prolungato, con rischio di coinvolgimento emotivo, e a bassi livelli di soddisfazione sul lavoro (Engelbrecht et al., 2008; Chopra et al., 2004).
La tendenza generale è di dare ampia considerazione all’influenza delle caratteristiche personali come elementi di rischio, sottovalutando l’importanza fattori caratteristici del contesto di lavoro. La letteratura, al contrario, dà ampio rilievo a tali fattori, causa di stress cronico, tra i quali risaltano tensioni eccessive prolungate e il rapporto interpersonale (Maslach & Leiter, 1997). Indubbiamente le caratteristiche personali influenzano le modalità attraverso le quali ognuno interpreta, analizza e reagisce al contesto, ma non risultano essere le componenti determinanti del burnout. Alcuni autori rilevano caratteristiche individuali che predispongono: età superiore ai trenta/quaranta anni, nubilato/celibato, livello culturale elevato; in generale le persone che affrontano le difficoltà con un atteggiamento passivo/difensivo, con ridotte capacità di controllo o che si impegnano maggiormente nel proprio lavoro, risultano maggiormente a rischio (Tomei et al. 2008).
È interessante evidenziare che alcuni studi sugli effetti dei fattori di rischio sulla salute degli operatori sostengono che le differenti tipologie di trattamenti erogati e le differenti caratteristiche delle persone prese in carico, determinano specifiche condizioni di lavoro e influenzano il livello di benessere nel contesto lavorativo (Tummers et al., 2002; Verhaeghe et al., 2008).
Diversi studi dimostrano un’incidenza maggiore in strutture che si occupano prevalentemente di patologie croniche, nello specifico oncologia (Barnard et al., 2006; Medland et al., 2004; Gentry & Baranowsky, 1998), psichiatria, malattie infettive (Zenobi & Stefanile, 2007). Il coinvolgimento emotivo che si viene a creare con il paziente ha ricadute sugli operatori che tendono a percepire il fallimento della cura, come un fallimento personale (Perry B. 2008; Sherman A.C. et al. , 2006; Simon et al , 2005). La patologia neoplastica, la complessità dei trattamenti, la morte, le questioni etiche correlate risultano fattori stressogeni che influenzano l’operatività quotidiana (Najjar et al., 2009).
Gli studi che riguardano l’incidenza del fenomeno nelle terapie intensive sono scarsi e discordanti. In Europa si parla del coinvolgimento del 30% degli infermieri e del 40-50% dei medici (Michalsen & Hillert, 2011). Nello specifico degli infermieri che lavorano in reparti di terapia intensiva, risulta un basso esaurimento emotivo, fattore di rischio per la sindrome (Tummers et al., 2002), ma alti livelli di spersonalizzazione assistenziale (Viotti et al. 2012). In generale, il livello di insoddisfazione degli infermieri dei reparti per patologie acute risulta due volte superiore, presumibilmente per un maggior carico di lavoro, insieme a una riduzione dei tempi relazionali (Violante et al., 2009).
Uno studio italiano riporta che sugli elementi del burnout, esaurimento emotivo, realizzazione personale e depersonalizzazione, non emergono differenze statistiche tra i reparti di cronicità e acuzie. Per quanto riguarda l’esaurimento emotivo, risulta nettamente superiore negli infermieri del dipartimento emergenza-urgenza; la spersonalizzazione, invece, risulta assente in tale area, ma elevata nei reparti per patologie croniche (Burla F. et al, 2013).
Nonostante in letteratura esista un consenso generale nel considerare il burnout un fenomeno con un’incidenza maggiore agli esordi della carriera lavorativa (Sentinello & Negrisolo, 2009), si rileva che i soggetti anagraficamente e professionalmente più anziani, risultano significativamente più insoddisfatti, dunque a rischio di burnout (Violante et al. 2009). Dai risultati ottenuti si evince che il burnout non è un fenomeno legato alla contingenza dell’inserimento lavorativo, ma si aggrava nel tempo, in modo graduale.
Uno sguardo al contesto clinico.
Dalla bibliografia emergono riflessioni significative correlate alle specificità dei contesti di lavoro ed è per tale ragione che si è provato a mettere in correlazione contesti cronici (medicina, lungodegenza) e acuti (chirurgia, pronto soccorso) di un ospedale distrettuale.
Per tale analisi sono stati utilizzati la Maslach Burnout Inventory (MBI; Maslach e Jackson, 1993) e il Burnout Potential Inventory (BPI; Potter, 1994). L’MBI è uno strumento validato, costituito da ventidue items che vanno a misurare le tre differenti dimensioni del burnout: Esaurimento Emotivo (EE), Depersonalizzazione (DP), Realizzazione Personale (RP). A ciascuna domanda l’intervistato assegna un valore secondo scala Lickert da 0 /6. Il BPI è costituito da ventotto indicatori che misurano le condizioni lavorative considerate rischio di burnout: mancanza di potere, assenza di informazioni, conflitto, equipe inefficiente, straripamento (quando il lavoro interferisce con la vita privata o è molto in relazione al tempo a disposizione), noia, mancanza di feedback, punizioni (non riconoscimento del proprio lavoro), alienazione (percezione di isolamento e vissuto del ruolo lavorativo come di un ingranaggio della macchina organizzativa), ambiguità del proprio ruolo (cambiamenti frequenti e mancanza di priorità), mancanza di ricompense, conflitti di valore.
Sono stati coinvolti due gruppi di professionisti per un totale di cinquantatre infermieri ospedalieri, per cui sono stati presi in considerazione anche l’età e gli anni di servizio.
Per quanto riguarda i reparti per patologie croniche, la scala MBI evidenzia un esaurimento emotivo elevato per il 12% degli infermieri, moderato per il 25%, basso per il 63%. Il livello di DP risulta elevato per il 17% degli infermieri, moderato per il 21%, basso per il 62%. Relativamente alla RP, risultano alti livelli per il 67% dei professionisti coinvolti nell’analisi, moderati per il 25%, bassi per il restante 8%.
Il BPI, in linea con i risultati del precedente strumento, rileva un basso rischio di burnout per il 96% degli infermieri: per tutti gli indicatori prevale, nettamente, il basso rischio.
Per quanto riguarda i reparti per patologie acute, la scala MBI evidenzia un EE alto per il 32% degli infermieri, moderato per il 26%, basso per il 42%. Il livello di DP risulta elevato per il 42% degli infermieri, moderato per il 16%, basso per il 42%. Bassi livelli di RP si riscontrano nel 21% dei professionisti; nel restante 58% emergono livelli elevati.
Dai risultati ottenuti con il questionari BPI, si evidenzia che nei reparti acuti, il rischio di burnoutè basso per l’84% dagli infermieri coinvolti, moderato per l’11% ed elevato per il 5%.
Esistono contesti clinici a maggior rischio di burnout.
Dall’indagine effettuata emerge che gli infermieri che lavorano nei reparti acuti dimostrano un livello maggiore di esaurimento emotivo, dato contrastante con quanto emerso in bibliografia (Viotti et al., 2102; Zenobi & Sansoni, 2007; Tummers et al., 2002), ma in linea con uno studio più recente (Burla et al., 2013). In entrambi i contesti, i livelli più elevati di EE fanno riferimento a infermieri appartenenti a medesima fascia d’età (40-49 anni) e medesima anzianità di servizio (da 21 a 30 anni).
Anche la DP risulta più elevata nei reparti acuti, in linea con la bibliografia (Viotti et al., 2102; Zenobi & Sansoni, 2007); da tali dati si discosta lo studio citato precedentemente in cui la DP risulta essere completamente assente nei dipartimenti di emergenza (Burla et al., 2013). Gli anni di servizio e la fascia d’età più colpita risultano le medesime dell’EE, in entrambi i contesti.
Bassi livelli di RP (elevato burnout) interessano prevalentemente gli infermieri dei reparti acuti. Il dato appare contrastante con il contesto lavorativo che solitamente richiede conoscenze e tecniche avanzate e che quindi dovrebbe offrire maggiori gratificazioni personali. L’elemento esplicativo coincide, probabilmente, con l’elevato rischio di insuccesso per complessità assistenziale, con possibilità di sviluppare senso di inadeguatezza e impotenza (Zenobi & Sansoni, 2007).
Complessivamente dal MBI emergono livelli maggiori di burnout in soggetti anagraficamente e professionalmente più anziani, nonostante in letteratura prevalga un’incidenza maggiore nei primi anni della carriera lavorativa (Sentinello & Negrisolo, 2009).
I dati emersi da BPI, sul rischio di burnout, non fanno emergere differenze significative correlabili al contesto di lavoro. I livelli di rischio risultano, infatti, bassi sia nei reparti cronici (96%), sia nei reparti per acuti (84%). Un unico questionario, dei reparti per acuti, riporta rischio elevato di burnout corrispondente a una fascia d’età superiore ai cinquant’anni.
L’elemento di maggior criticità, emersi dal BPI sui reparti acuti (straripamento) risulta in linea con la letteratura (Zenobi & Sansone, 2007).
Conclusioni.
Nel contesto preso in esame non emergono dati preoccupanti di burnout sulla popolazione di professionisti analizzati, pur evidenziando una prevalenza nei reparti per patologie acute. Gli elementi di rischio risultano sovrapponibili ai due contesti, mantenendosi su un basso livello in entrambi.
In accordo con quanto emerso dalla bibliografia, si conferma un ruolo importante del contesto ambientale e organizzativo, su incidenza e sviluppo della sindrome, poiché i bassi elementi di rischio, correlati alle caratteristiche del contesto di lavoro, esitano in bassi livelli di burnout.
I principali elementi di prevenzione fanno riferimento alla promozione della salute nei luoghi di lavoro, alla riduzione del sovraccarico orario e alla gestione di sessioni di supervisione (Wolfgang et al., 2011; Korczak et al., 2010). Le strategie focalizzate alla persona prevedono il rafforzamento delle risorse individuali, per aumentare la capacità di gestione dello stress lavorativo e il miglioramento delle dinamiche relazionali (Sentinello e Negrisolo, 2009). Gli interventi di prevenzione e riduzione del burnout saranno tanto più efficaci quanto più riusciranno a cogliere la complessità di questo fenomeno e dovrebbero agire su molteplici livelli, combinando diverse strategie (Ibidem).
Autori:
di Beatrice Duzzi (1), Iole Giovanardi (2), Cinzia Gradellini (3)
(1) Infermiera, Casa Residenza Anziani, Rubiera (Reggio Emilia)
(2) Infermiera, Azienda Ospedale Santa Maria Nuova Reggio Emilia
(3) Tutor e docente del CdL in Infermieristica di Reggio Emilia, Università di Modena e Reggio Emilia; Azienda Ospedale Santa Maria Nuova Reggio Emilia
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Fonte: FNOPI – AssoCareNews.it