Mauro Pagani, fondatore della Premiata Forneria Marconi, e Massimo Bubola, cantautore veronese di stile dylaniano che dalla musica ha forse avuto meno di quanto la sua forza poetica meritasse, si sono incrociati la prima volta nel 1981. Complice «la voce scura e meravigliosa» di Fabrizio De Andrè alla quale hanno regalato parole e suoni.
La ricorda così Pagani che negli studi di registrazione del Castello di Carimate (Brianza, uno dei luoghi magici del pop italiano anni Ottanta) lavorava alla colonna sonora di Sogno di una notte di mezza estate: Gabriele Salvatores, Gianna Nannini, l’Elfo, mentre De Andrè registrava nello studio accanto le canzoni de L’indiano, album che uscì quell’anno firmato a metà con il ventenne Bubola (era la seconda volta, dopo il precedente Rimini).
Tra sardi e nativi
Attraversato dall’esperienza drammatica del rapimento in Sardegna, lui e la moglie Dori Ghezzi chiusi nell’Hotel Supramonte di cui parla la canzone, fu il disco della poesia e della sconfitta dei “popoli oppressi”: i sardi e gli indiani, nativi d’America, che gli anni Settanta consegnavano ai già indifferenti Ottanta come scelta di campo etica, di resistenza a oltranza.
Bubola sapeva tutto del massacro di Fiume Sand Creek, la canzone scritta con la sua prima chitarra elettrica Rickenbaker. Raccontava come i soldati dopo avere portato «l’avidità, l’avarizia, la gelosia, la lussuria perversa e la malattia», massacrarono donne e bambini nonostante questi si fossero stretti alla bandiera americana che doveva rappresentare un patto di pace.
Gli indiani erano una delle metafore di alterità più diffuse di quegli anni, sui poster nelle camerette dei ragazzi, nei film con Dustin Hoffman, la traduzione Mondadori di Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, persino gli sberleffi degli indiani metropolitani.
Il viaggio di Pagani
L’analogo viaggio di Mauro Pagani alla scoperta di «culture viventi ma chissà perché messe da parte», come aveva scritto nelle note del suo primo album (1978), era cominciato tempo prima. La sensibilità dolorosa nei confronti delle ingiustizie del pianeta, frutto del laboratorio politico e esistenziale della Milano anni Settanta, l’abbandono della Pfm da rockstar conclamata, la successiva depressione, fu lenita della scoperta dei dischi di «musica del mondo» e l’ascolto di «tutto quanto di balcanico si trovasse sul mercato»: un gioco condiviso con Demetrio Stratos, Moni Ovadia, col fondatore degli Aktuala Walter Maioli che lavorava nel grande negozio della Ricordi in Duomo.
Violinista per studi privati, flautista per eredità paterna, Pagani aveva iniziato allora a raccogliere (e suonare) mandolini, chitarre, saz e bouzuki, tra un vacanza in Grecia e una in Turchia. Aveva già suonato col Canzoniere del Lazio e i Carnascialia. Fabrizio De Andrè suggellò l’amicizia nata nella breve convivenza a Carimate –tra i whisky, i cappuccini e i giornali del mattino – chiedendo a lui di occuparsi della band che avrebbe seguito la sua tournée europea, alla quale avrebbe partecipato anche Massimo Bubola.
Il secondo passo di quel rapporto durato initerrottamente per 14 anni sarebbe stata la realizzazione di Crêuza de Mä, cantato da De Andrè in genovese e scritto da Pagani in una koinè che rappresentava il precipitato di tutto lo struggimento del decennio.
Il musicista andò in Algeria a cercare ispirazioni, musicisti e strumenti, quasi con lo stesso slancio che Pasolini (e Elsa Morante) avevano incastonato nelle musiche per la Trilogia della vita che della nostra “world music” è il riferimento nascosto e profondo.
Analoghi memoir
Quarant’anni dopo, le strade di Mauro Pagani e Massimo Bubola tornano a incrociarsi (almeno in libreria) per la pubblicazione di due memoir curiosamente analoghi per le ombre di morte e malattia che li attraversano, senza fare sconti.
Colpito due anni fa da un ictus che gli ha fatto perdere la memoria, Pagani scrive per recuperare una vita intera, anzi Nove vite e dieci blues (Bompiani). Il collegio, la provincia, la fuga di casa in autostop, musicista di balera, comuni nella Milano anni Settanta, rockstar ma Fuggitivo, come battezza l’altro sé. Ben nascosto dietro la scrittura, lo sforzo rende ogni ricordo doppiamente prezioso, anche i tanti che sono rimasti nella memoria dei suoi fan.
Invece nel racconto di Massimo Bubola Sognai talmente forte (Mondadori) le canzoni più celebri scritte per De Andrè (Rimini, Canto del servo pastore, Andrea, Quello che non ho, Volta la carta) si animano delle mille storie che le hanno fatte nascere. Quasi una narrazione magica alla García Márquez, la torrenziale rêverie degli ultimi giorni del patriarca Callimaco dietro il quale Bubola si nasconde, l’attesa del «viaggio in Ade» con l’estrema compagnia della famiglia e degli amici di sempre.
Diverse memorie
Una memoria interrotta e ritrovata, quella di Pagani. Una memoria mascherata da saga familiare, forse da rito scaramantico ma rabbioso, quella di Bubola. C’è qualcosa di simbolico in questa sincronia involontaria, certo al riparo «dalla tristezza dei vip, dalle claque della notorietà, la grandine del presenzialismo e i poeti da salotto», come sbotta a un certo punto Callimaco/Bubola.
Proprio oggi che il passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta – gli anni di piombo e dell’eroina, gli anni della televisione e della modernità sfrenata – così lontano e confuso, riappare a sorpresa in certe faglie della cronaca quotidiana.
Così Mauro Pagani ricorda la sua Milano divisa in due, nella quale era arrivato dalla provincia bresciana: «Da una parte l’Università Statale, dall’altra San Babila e dintorni, feudo di manipoli di neofascisti nervosi e violenti che è meglio non incontrare». Una città accesa da un’esplosione di passioni opposte, radicalità esistenziali impensabili, dove lo stesso dialogo con quelli della propria parte poteva essere sporadico e complicato: «L’ascolto del rock era considerato segno di confusione e debolezza (…) Salvo poi contemplare il triste spettacolo di interi servizi d’ordine in discoteca a ballare i Bee Gees». Pagani ha insegnato musica al Santa Marta, uno dei primi centri sociali milanesi «per provare a restituire un po’ dei regali che dalla buona sorte avevo ricevuto». Non generosi come lui furono i padroni del palazzo, il centro sociale fu chiuso e abbattuto nel 1980.
I fantasmi
Rimini era già un disco profondamente attraversato da questi e altri fantasmi degli anni Settanta. Nel lungo racconto che scava dentro la notissima ballata cantata nel 1978 da De Andrè sulla Teresa figlia di droghieri («tra i gelati e le bandiere»), Bubola/Callimaco svela uno sviluppo inedito della canzone: la protagonista rinuncia all’immobilità che la costringe a guardare per sempre il mare Adriatico e segue il suo amore di riviera, il sudamericano Guillermo, forse il padre del figlio che ha abortito. Coinvolta da lui nella resistenza al regime argentino, Teresa finisce buttata nel vuoto da un aeroplano dei desaparecidos. Bubola porta in dono a De Andrè un catalogo di metafore e altre figure di scrittura che venivano dalla tradizione dei poeti Beat e si riverberavano sul rock, provocavano la realtà senza piegarsi mai al realismo spicciolo.
A metà anni Sessanta De Andrè aveva cominciato come trovatore snob medievaleggiante, rubando quasi tutto al cabaret francese; il suo percorso successivo era stato segnato dalle distanze della poesia e del teatro. Offuscato dall’alcool come una specie di sciamanica presenza ora prestava la sua voce («non mancava mai un attacco», ricorda Pagani) a un disco molto diretto e rock come Rimini, il cui suono “messicano” si sentiva per esempio nell’amatissimo (allora) Desire di Bob Dylan (di cui è tradotta la splendida Romance in Durango) Stimato traduttore di testi, teorico della letteratura rock, Bubola/Callimaco affida al giovane nipote Gilroy la struggente evocazione dell’epopea del rock, così: «Uno dei più importanti viaggi del Novecento (…) ferrovia che attraversa l’America (…) la visione collettiva di una grande generazione nata dopo l’atomica di Hiroshima e cresciuta i miasmi di altri conflitti (…) immune dall’apologia del boom economico».
Generazione di treni, di navi, traghetti e vascelli fantasma. Mitologia degli indiani e dei marinai. Tutto pur di scappare dall’eterna stagnante provincia dell’anima, per chi l’aveva conosciuta negli insopportabili anni Cinquanta e non solo. De Andrè fece appello alla mitologia della sua città, che aveva a lungo coltivato, per scrivere in dialetto i testi di Crêuza de Mä. Ne venne fuori un canto per il paese da cui fuggire si deve, dove prima o poi – da marinai – bisogna tornare. Non a caso uno dei dischi più rappresentativi della musica pop italiana di sempre.
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