Non c’è orologio del countdown che tenga: sarà anche imminente la fine del mondo, ma nemmeno i ripetuti allarmi ecologici riescono ormai a bucare la coltre d’indifferenza, se non proprio d’insofferenza, che sembra essersi stesa sulle nostre società ricche e mature.
Lo si nota soprattutto sfogliando i mass-media tradizionali: è sconfortante anche l’ultimo rapporto sul monitoraggio Greenpeace Italia-Università di Pavia, a proposito della copertura dei grandi giornali e delle principali reti tv in materia di crisi climatica, e giustamente non mancano gli osservatori che registrano come l’ulteriore sconsolante calo di attenzione alle tematiche ambientali si consumi a fronte di un non casuale quasi raddoppio delle inserzioni pubblicitarie delle società che operano nei settori economici più inquinanti (soprattutto energia e petrolio, poi auto, aerei e navi).
E si può ben dire che si spinge fino negli angoli e nei dettagli, questo atteggiamento d’indifferenza e/o insofferenza dei giornaloni e delle reti cosiddette generaliste, compatte in una sorta d’informazione gemella, seppur in teoria concorrenziale e mista pubblico-privato. Lo si nota bene quando dal mondo dello spettacolo artistico arrivano, per fortuna abbastanza di frequente, segnali di un diverso e più sensibile atteggiamento.
Prendiamo un primo esempio singolare di questi giorni, l’uscita del film Disco Boy: opera prima di Giacomo Abbruzzese, è arrivata nelle sale italiane a marzo con tanto di Orso d’Argento in locandina, appena vinto, al 73/o Festival del Cinema di Berlino (per il Miglior Contributo Artistico a Hélène Louvart, bravissima direttore della fotografia). Nonostante gli sperticati elogi dei critici internazionali, anche per la colonna sonora originale, firmata dal guru francese della musica elettronica Vitalic, nonché per la bravura del protagonista Franz Rogowski (attore tedesco di prim’ordine Undine, Freaks Out), Disco Boy ha fatto persino un po’ storcere il naso a certe prime firme dei giornaloni e soprattutto è stato pressoché ignorato dai grandi media di cui sopra.
Eppure, ci si sarebbe potuti aspettare nei confronti di Abbruzzese, tarantino classe 1983 che si è fatto conoscere come fotografo e cineasta a Parigi, una reazione analoga a quella che dopo Favolacce a Berlino 2020 ha sdoganato nel nostro pseudo-Olimpo mediatico i fratelli D’Innocenzo e li ha trasformati in personaggi da mettere in pagina spesso e volentieri. Tra l’altro in qualche modo si assomigliano per linguaggio cinematografico, persino al di là della scelta di un attore come Matteo Olivetti, che si era fatto notare con il primo film dei D’Innocenzo, La terra dell’abbastanza, e torna con Disco Boy a un ruolo di un certo rilievo.
Volendo, una maliziosa spiegazione di questa singolare rimozione del piccolo grande ‘fenomeno Abbruzzese’ – perché tale si dovrebbe considerare per il successo internazionale e la freschezza – si trova anche nelle motivazioni della pur invitante segnalazione di Disco Boy come ‘Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI’: “Affidandosi a una struttura narrativa metaforica e a un impianto visivo stilizzato, il regista racconta una storia di sradicamento e simbiosi, in cui la flagranza dei temi della contemporaneità storica si intreccia alla statura morale dei personaggi. Grazie a una sapiente struttura visiva, che definisce in chiave astratta luoghi e figure, il film restituisce un prolifico intreccio di elementi fisici, reali, pulsionali e spirituali”.
Tutto vero, ma resta, soprattutto, che questo atipico e incantevole film di guerra si caratterizza in prima battuta per il grande pathos ecologista, muovendo dal racconto di quel che succede nel delta del Niger. Parliamo di un’area devastata come poche altre al mondo, saccheggiata per decenni dalle estrazioni petrolifere selvagge di Shell, Total e dei nostri eroi dell’Ente Nazionale Idrocarburi, il più grande potere costituito italiano, secondo molti il vero e proprio governo-ombra del Paese. Certo, le immagini reali di Abbruzzese e le vicende da cui parte la storia di Disco Boy – l’uccisione del leader della rivolta armata contro il neocolonialismo delle popolazioni indigene del delta del Niger – non sono esattamente consonanti alla cosmesi verde dell’Eni in Plenitude, così come da mesi rimbalza dalle pagine di pubblicità agli spot e alle sponsorizzazioni genere festival di Sanremo. L’uscita di Disco Boy in Francia è prevista ai primi di maggio, e vedremo come sarà il trattamento mediatico nella patria della Total.
Disco Boy si nota anche per la presenza femminile dell’artista-attivista ivoriana, Laëtitia Ky, che intorno alla sua capigliatura ha costruito un’iconografia militante per i diritti delle donne africane. Così, per associazione, arriviamo quindi al secondo esempio, relativo alla performance Amazonía 2040 di Martha Hincapié Charry, andata in scena a Milano nell’ambito del festival FOG di Triennale Teatro, nel pressoché totale silenzio indifferente dei nostri grandi media. Si tratta di un lavoro davvero interessante e meritorio, perché apre, esattamente come Disco Boy, la questione ambientale in relazione ai piccoli popoli indigeni delle zone devastate.
Bisogna premettere che la stessa Hincapié, ballerina e coreografa colombiana di stanza a Berlino da molti anni, è orgogliosa delle sue radici indigene Quimbaya e in questa performance prova a dare voce alle piccolissime tribù che custodiscono le zone più remote dell’Amazzonia, toccando la realtà di luoghi come il parco di Chiribiquete, dove ancora oggi sopravvivono, nascosti da una natura rigogliosa e selvaggia, addirittura gruppi di indigeni cosiddetti ‘non contattati’. Muovendosi davanti a un’installazione video di 12 metri, Martha Hincapié Charry non si limita a fornire sinteticamente le informazioni più precise sullo stato della regione amazzonica e la deforestazione, ma porta lo spettatore occidentale dentro queste lontanissime realtà minacciate dalla distruzione e infine coinvolge il pubblico in una sorta di celebrazione-meditazione sulla terra, un rituale intimo e sui generis, che in qualche modo ha a che a fare persino con lo straordinario patrimonio Unesco di pitture rupestri di 21mila anni fa, che sono appunto nella foresta del Chiribiquete, e con gli sciamani di alcune tribù che le sorvegliano.
Certo, mentre il linguaggio delle immagini, pur desolante, come gli accostamenti tra le discariche abusive e l’habitat amazzonico, tra gli incendi dei deforestatori e lo smarrimento degli splendidi animali in via d’estinzione, è tutto sommato di facile comprensione, lo spettatore occidentale si sente particolarmente smarrito al confronto con le piccole e remote culture indigene, e non è facile accettare l’idea che in questa conservata dimensione ancestrale del sacro, e in una povertà che a noi appare in tutta la sua crudezza miseria, risiedano invece anche le ragioni di una così ben diversa sensibilità ecologica.
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