Concluso il 79° Congresso Nazionale FIMMG. La squadra che supporterà Scotti per i prossimi quattro anni è composta da Pier Luigi Bartoletti, Nicola Calabrese, Fiorenzo Corti, Domenico Crisarà, Alessandro Dabbene e Noemi Lopes
di Arnaldo Iodice e Ciro Imperato
Piena riconferma per il Segretario Generale Silvestro Scotti e il suo Esecutivo Nazionale, con l’ingresso nella squadra della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale di una donna sotto i quarant’anni come prevedeva lo statuto nella modifica voluta nel corso del mandato dall’Esecutivo uscente. È con questo risultato che si è concluso il 79° Congresso Nazionale FIMMG a Villasimius in Sardegna. All’esito delle elezioni, la squadra che supporterà Scotti per i prossimi quattro anni è composta da Pier Luigi Bartoletti, Nicola Calabrese, Fiorenzo Corti, Domenico Crisarà, Alessandro Dabbene e Noemi Lopes. Confermato come Presidente nazionale Giacomo Caudo. Malek Mediati è invece Presidente nazionale onorario. Inoltre, Carlo Curatola ha ricevuto da Scotti la nomina al ruolo di Segretario del Segretario Nazionale. Sanità Informazione ha intervistato, al margine del Congresso, il riconfermato Segretario Nazionale Silvestro Scotti.
Segretario, si è rivolto spesso alla platea e ha chiesto di feedback costanti. Mi ha colpito particolarmente una frase quando ha detto: «Ho paura, se voi avete paura». Che sensazione ha avuto?
«Io credo che nel momento in cui si è il Segretario uscente di un sistema che si avvia alla parte elettiva, senza che questo metta in discussione la tua volontà di continuare, la tua rappresentanza, tu debba raccogliere la sensazione, anche solo emotiva, di una platea che ti appoggia in quella decisione. Non credo che esista un leader che possa essere tale se si autoimpone, si autocandida. Penso che la cosa migliore per un leader sia essere sicuro che dietro ha una squadra che non ha paura, perché nei prossimi mesi e nelle prossime settimane ci sarà bisogno di alzare la voce, o di non alzarla ma di portare sul tavolo delle competenze. Un sistema immobilizzato da una paura, che può essere anche legittima rispetto a tutti gli eventi di cui abbiamo parlato in questo congresso, che non riguardano solo la sfera sanitaria ma che vanno ad impattare anche la sfera sociale, con la quale noi siamo strettamente connessi. Nello studio del medico di famiglia non arriva solo il problema sanitario: arriva il problema sociale, il problema economico, il problema di famiglie che ti chiedono aiuto. È chiaro che tutto questo poi ce lo portiamo a casa. Ce lo portiamo nelle nostre famiglie. Siamo essere umani fatti di carne e ossa e chiaramente questo sistema può amplificare le tue paure. Credo che il Paese invece abbia oggi bisogno di una medicina generale forte, che non ha paura di dire quello che pensa, di dire la propria sui modelli, sulle strutture, sull’evoluzione del servizio sanitario ma forse di dire la propria anche all’interno del Paese. E questo non perché vuole fare politica ma perché, sostanzialmente, vuole tornare ad un concetto di polis in cui nelle piazze sociali, che possono essere le piazze dei nostri paesini, dei nostri quartieri, il medico di famiglia possa ritornare ad essere quel riferimento che qualche parte di stampa, negli ultimi anni, ha trattato con maleducazione».
Al tavolo oggi c’era il Ministro uscente Speranza. Troverete dei nuovi interlocutori e, come lei ha detto, siete pronti a portare sul tavolo delle proposte per fissare subito delle priorità. Cosa c’è in cima?
«In cima c’è sicuramente, secondo me, la necessità di chiarire, una volta e per tutte, che cos’è un lavoratore autonomo all’interno dell’esercizio di una funzione pubblica. Basta con questa discussione sui ruoli giuridici. Io ho fatto una provocazione: non capisco perché si debba parlare per un libero professionista convenzionato di parasubordinato e non si debba parlare di parautonomo. Da parte mia non ho l’intenzione di fare una discussione in quel senso. Il problema è che l’autonomia professionale dà probabilmente delle occasioni in economia di scala anche a un Paese che forse non ha tante risorse. Se i medici costituiscono dei soggetti societari e attraverso questi soggetti societari non andiamo più a impattare solo sul contenuto del fondo sanitario nazionale per i fattori di produzione, ma andiamo ad impattare su quelli che sono i progetti per il lavoro su quelle che sono le agevolazioni fiscali che vengono fatte per le imprese, allora in quel caso, se siamo considerati una sorta di impresa sociale a funzione pubblica sussidiaria, qualcuno dovrebbe cominciare a pensare quando fa gli aiuti sulle bollette, gli aiuti sulle linee digitali, gli aiuti di defiscalizzazione nel miglioramento delle attrezzature per entrare nei nostri studi, quindi defiscalizzato o agevolando sul piano dell’acquisto, probabilmente non è che fa un servizio economico al medico di famiglia che così guadagna di più. Fa un servizio al potenziamento di una medicina territoriale che così eroga servizi maggiori e migliori».
Approfitto anche della sua schiettezza, lei riesce sempre a sintetizzare bene gli argomenti. Oggi parlare di medicina di prossimità è solo uno slogan o no? Allo stato attuale delle cose,
«Allo stato attuale delle cose lei ha perfettamente ragione. Rischia di essere uno slogan a causa della mancata programmazione degli ultimi vent’anni. Devo dire che porto con soddisfazione nel rapporto con l’ assessore Donini il fatto che martedì prossimo andremo in audizione in Commissione salute proprio sul tema della carenza dei medici. Perché il vero problema per mantenere la prossimità è il fatto che ci siano abbastanza medici per garantirla. Io da anni ho detto: superiamo il concetto del solo medico per numero di assistiti, cominciamo a parlare del medico per chilometro quadrato. Poi, su questo, io spero che si faccia un’operazione verità da parte della politica. In fondo, l’onorevole Gemmato l’ha iniziata, per quanto riguarda il discorso di rendere il concetto di prossimità con la casa di comunità: mettiamo pure che ci siano 1.500 case di comunità. Ma qualcuno fa una riflessione? Quanti sono gli ospedali in Italia? Più o meno di 1.450? Allora, gli ospedali sono più prossimi della casa di comunità? Mi sembra quasi una barzelletta. È chiaro che se la casa di comunità è un sistema funzionale nel quale posso ricorrere per aumentare la mia intensità assistenziale per un paziente che abbia mobilità e ci siano servizi sociali, o di volontariato e così via, che lo permettano. Allora in quella sede si può centralizzare le funzioni in cui il medico di famiglia lavora in “economia di scala” con gli altri specialisti per raggiungere un obiettivo maggiore. Ma è già stato dimostrato che un cittadino preferisce aspettare il suo medico, quando torna in paese, piuttosto che fare chilometri e chilometri per una casa di comunità. E allora, il problema qual è? Le risorse umane. Noi dobbiamo trovare la mediana rispetto anche alle caratteristiche del territorio per decidere quale modello (rurale, intermedio, suburbano, ecc) adottare. Perché, per paradosso, può risultare necessaria una prossimità anche all’interno di un quartiere di una città metropolitana».
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