Ogni elezione in Italia è decisiva, ma nessuna è risolutiva. Abbiamo visto nell’ultima legislatura che anche i risultati più netti usciti dalle urne non consentono di prevedere chi governerà: il voto del 4 marzo 2018 aveva sancito il trionfo populista, ma ci sono voluti tre mesi e una crisi istituzionale per arrivare una imprevista coalizione tra Lega e Cinque stelle che è durata appena un anno.
Il Pd, ancora guidato da Matteo Renzi, affrontava una “sconfitta storica”, dicevano i dirigenti allora. Poi, tra scissioni e ricongiungimenti, ha governato per metà legislatura, tra 2019 e 2022.
Giuseppe Conte è passato in cinque anni da essere l’avvocato del popolo sopra le parti, garante di una grande coalizione populista, a “punto di riferimento dei progressisti” del Pd a incarnazione dell’unità nazionale nella pandemia a sabotatore dell’unità nazionale durante la guerra ucraina ad aspirante leader di una sinistra fondata sul sud e sulle classi disagiate dimenticate dai liberal delle zone a traffico limitato.
La Lega di Salvini ha conquistato il sud, l’ha perso, ha fatto la guerra alle ong sui migranti, l’ha persa, ha promesso l’autonomia differenziata al nord e non l’ha concessa, ha promesso l’uscita dall’euro e poi ha votato la fiducia al governo dell’uomo che l’euro l’ha salvato, Mario Draghi, salvo poi contribuire a farlo cadere.
Tutto questo per dire che, nonostante anni di proclami dei Cinque stelle, siamo ancora in una democrazia rappresentativa: gli elettori scelgono i parlamentari, ma non i governi, votano i partiti ma non possono vincolare il mandato degli eletti al rispetto di coalizioni o programmi.
Effetto Rosatellum
L’attuale legge elettorale Rosato impone una logica maggioritaria nei collegi, decisivi, e conserva una quota proporzionale che serve soprattutto a limitare la scelta degli elettori: possiamo votare un candidato all’uninominale deciso dall’alto sulla base di logiche interne alle coalizioni o ai partiti, senza le ormai dimenticate primarie, e al proporzionale possiamo soltanto votare un partito e contribuire così a eleggere altri parlamentari sulla base di gerarchie e incastri complicati tra candidature multiple che servono a garantire il seggio ai soliti noti.
Eppure, questa elaborata architettura per rendere l’elettore impotente ci lascia comunque un importante margine per incidere sugli eventi. Il centrodestra ha già vinto, è vero, ma quello che succederà dopo la vittoria nessuno lo sa.
Giorgia Meloni non ha una classe dirigente per governare il paese, ha dovuto resuscitare mummie del berlusconismo; Matteo Salvini è un leader fuori controllo e in caduta libera, imbarazzante anche per il suo partito e inaffidabile sul piano internazionale; Silvio Berlusconi è un meme vivente che ottiene like su TikTok, ma davvero si accontenterà di essere il numero tre della sua ex ministra della Gioventù?
Altre maggioranze
Le simulazioni del prossimo parlamento, basate sugli ultimi sondaggi disponibili, indicano una schiacciante maggioranza del centrodestra, nell’ordine di decine di seggi al senato (dove i numeri sono sempre più delicati). Se però il centrodestra esplodesse, magari con l’espulsione della Lega per incompatibilità nella linea da tenere su Russia e crisi energetica, altre maggioranze sarebbero possibili.
Certo, oggi sembra impensabile qualunque scenario diverso dalla marcia delle destre su Roma e palazzo Chigi. Ma chi avrebbe vaticinato un governo Draghi dopo il voto del 2018? Dopo anni di alchimie di palazzo così creative, è legittimo e perfino giusto che se il centrodestra avrà la maggioranza dei voti degli italiani si confronti con la prova del governo.
Non è però affatto scontato che abbia successo: molti hanno dimenticato che l’ultima, solida, maggioranza di centrodestra si è infranta nel 2011 per la totale perdita di credibilità internazionale con una conseguente crisi di fiducia sui mercati finanziari che ha quasi spinto il paese alla bancarotta (prima dell’arrivo dell’austero governo tecnico di Mario Monti).
Giorgia Meloni non ha mai avuto un vero lavoro in vita sua, è una politica di professione che non ha mai amministrato alcunché, se non un ministero senza portafoglio puramente simbolico, quello della Gioventù. Al confronto molti dei tanto derisi Cinque stelle paiono statisti.
Se Meloni confermerà i suoi limiti e sarà incapace di tenere insieme un governo, è assai improbabile che ci siano immediate elezioni. La combinazione di democrazia rappresentativa e requisiti pensionistici dei parlamentari garantiscono soluzioni creative, sotto l’egida responsabile e interventista del presidente Sergio Mattarella.
Insomma, Meloni e le destre vinceranno le elezioni, ma questo è solo l’inizio di una nuova fase che è tutta da determinare.
Quanto conta l’elettore
Gli elettori possono fare molto per condizionarne le prospettive. Possono andare alle urne in massa, smentendo i sondaggi della vigilia; possono disertare i seggi, per mandare il messaggio che qualunque governo uscirà non sarà il loro, minore la legittimazione più difficile diventa fare riforme profonde o cambiare la Costituzione; oppure possono esercitarsi in attente valutazioni sul voto utile: bisogna premiare il Pd perché serve un grande partito che bilanci Fratelli d’Italia? O seguire la linea indicata dal governatore della Puglia Michele Emiliano e dal sociologo Edoardo Novelli su Domani e votare il candidato che ha più possibilità nel collegio, anche se è dei Cinque stelle?
O magari sostenere il Terzo polo di Carlo Calenda perché, nella speranza che possa allargare il fronte anti destre al centro?
Tutto è legittimo. L’esito non è scritto.
I tatticismi dei leader di centrosinistra (in particolare Conte a Calenda) hanno consegnato la vittoria alla destra. Ma questo non toglie agli elettori la responsabilità di fare il possibile per limitare i prevedibili danni.
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