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Meloni non ha piani B per sostituire un pezzo della maggioranza, per questo Forza Italia sta lavorando per ricucire dopo lo strappo anche personale con Berlusconi.
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Ma per molti ministri si è ancora fermi agli identikit. Questo è il vero problema di Meloni, che viene da due settimane di intensissimo dialogo nella sua maggioranza ma che ha prodotto più interrogativi (e scontri) che accordi.
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Se si toglie un posto ad un partito, infatti, lo si deve compensare con altro, disattendendo qualche altra mezza promessa fatta anche solo il giorno prima.
Il fine settimana dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e il suo strascico di polemiche serve è a ricucire. Lo strappo tra la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e Silvio Berlusconi è profondo e si è consumato davanti alle telecamere: prima il Cavaliere a palazzo Madama e in bella mostra il foglio con scritto «supponente, prepotente, arrogante», poi Meloni che risponde: «Ha dimenticato un punto: che non sono ricattabile».
La frattura è profonda e ha un connotato sia personale che politico. Da Forza Italia si stanno muovendo gli ambasciatori di pace, appartenenti alla frangia interna del coordinatore Antonio Tajani: da un lato vogliono convincere Berlusconi ad abbassare i toni per non perdere più di quel che questo scontro già è costato; dall’altro dialogano con Fratelli d’Italia per garantirsi le caselle ministeriali previste, facendo rientrare anche il veto sui senatori in odore di ministero che però hanno commesso il passo falso di non votare La Russa al Senato.
Dalla sua, Meloni non intende spostarsi di un millimetro: «la questione per lei è prima di tutto politica, non accetta imposizioni dagli alleati, nè nomi bocciabili dal Quirinale», spiega una fonte molto vicina alla leader. Non esistono strategie B: il governo con la coalizione che è stata votata dai cittadini è l’unica via da seguire, altrimenti meglio non cominciare nemmeno.
Un allargamento della maggioranza ora o – peggio – una sostituzione dell’alleato azzurro non viene presa in considerazione: quanto accaduto al Senato con l’elezione di La Russa grazie ai voti coperti dell’opposizione è stata una mossa tattica studiata in anticipo per evitare sorpresa, ma non una strategia a lungo termine. È necessario che le regole d’ingaggio dell’esecutivo Meloni 1 siano chiare sin da subito.
Una di queste riguarda la scelta dei ministri: prima dei nomi, la leader ragiona di identikit e pensa a figure senza interessi secondari, senza ombre che possano insospettire il Colle, in cui lei sente di poter riporre fiducia.
L’ex magistrato Carlo Nordio, eletto alla Camera con Fratelli d’Italia, sarebbe il profilo perfetto: preparato nel suo settore, senza secondi fini e con una carriera specchiata. E pazienza se alla parte più militante della magistratura potrà non piacere, perchè l’obiettivo è individuare ministri all’altezza, anche se divisivi.
La lista è aperta
Eppure, la prova dell’aula ha mostrato un centrodestra lacerato al suo interno e, soprattutto, con pochissimi punti fermi e ancora moltissime caselle ministeriali aperte.
Questo è il vero problema di Meloni, che viene da due settimane di intensissimo dialogo nella sua maggioranza ma che ha prodotto più interrogativi (e scontri) che accordi.
Esistono alcuni punti fermi: il leghista Giancarlo Giorgetti sembra ormai confermato all’Economia e anche il suo partito ha dato il via libera; l’azzurro Antonio Tajani sta lottando per confermare gli Esteri e la ricucitura politica con Meloni è fondamentale; anche Roberto Calderoli, dopo il passoindietro al Senato,troverà posto in un ministero – sia quello delle Riforme o quello degli Affari regionali – e Raffaele Fitto (FdI) è certo di avere gli Affari europei. Tutto il resto è ancora in dubbio, con due o più nomi papabili e un gioco a incastri che sembra sempre più insolubile.
Se si toglie un posto ad un partito, infatti, lo si deve compensare con altro, disattendendo qualche altra mezza promessa fatta anche solo il giorno prima. Il passo falso di Meloni, infatti, è stato quello di cominciare molto presto le sue consultazioni anticipate, solleticando gli appetiti di troppi.
L’asse del dialogo, ora, è esclusivamente tra via della Scrofa e Arcore. La Lega di Matteo Salvini, invece, rimane cauta a guardare e il segretario non ha assunto alcun ruolo di mediatore tra i due. Grazie allo scontro, ha guadagnato la Camera e probabilmente anche il ministero che verrà tolto al Cavaliere.
Salvini ha bisogno di ottenere il massimo degli incarichi ed è deciso a utilizzarli per pacificare il partito. La Lega, infatti, è in ebollizione soprattutto sul fronte del nord. Gli scissionisti di Giovanni Fava hanno fatto il loro raduno in Brianza con lo slogan di «nè con Bossi, nè con Salvini» e il segretario ha bisogno di rispondere.
Lo ha già fatto con il veneto Fontana a Montecitorio e poi con la promessa di un ministero per Calderoli, ma deve tenere buono anche il fronte meridionale. Per non dichiarare abortito il progetto di Lega nazionale, infatti, il segretario sta lavorando per indicare Simona Baldassarre – medico eletta nel Lazio e vicina a Claudio Durigon – al ministero della Famiglia, riconoscendo un ruolo a chi lo ha sostenuto nel suo progetto oltre la Lega Nord. In questo modo, però, salterebbe la nomina di Isabella Rauti, che si è sempre occupata di famiglia e che Meloni vorrebbe premiare.
Così, anche se il mantra della premier in pectore è «fare presto», il gioco dei ministeri è ancora aperto e pieno di variabili.
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