I porti italiani sono un immenso brulicare di navi, uomini e mezzi, in cui merci stipate in enormi container vengono caricate e scaricate a ritmi sempre più veloci, sempre più serrati, per giungere alla destinazione finale nel minor tempo possibile.
Nei moli e sulle banchine ogni operazione deve essere eseguita con precisione, secondo regole stabilite per tutelare la sicurezza di quei lavoratori che si muovono all’ombra di quelle gru che incombono alte sopra le navi, tra container pesanti almeno 2mila chili e lungo percorsi prestabiliti usati anche da piccoli muletti, camion e persino da treni merci.
Proprio in un ecosistema così delicato, fatto di incastri e di enorme precisione, si gioca da anni una battaglia importante: quella tra produttività e sicurezza. Due aspetti del lavoro che non si escludono necessariamente a vicenda, ma che nei porti italiani non riescono più a convivere a causa delle continue liberalizzazioni e della formazione di oligopoli che hanno imposto un gioco al ribasso in cui la produttività vince su tutto. A discapito non solo della sicurezza dei lavoratori, ma anche delle città limitrofe, soprattutto in caso di transitano di armi e altri prodotti dell’industria bellica.
Una banale distrazione infatti può portare alla morte di un operaio, ma un incidente su una nave che trasporta esplosivo, casse di munizioni o altro materiale pericoloso non sempre correttamente identificato rappresenta un rischio per tutti, anche per chi nel porto non vi ha mai messo piede.
«Il nostro è un lavoro pericoloso. Movimentiamo mezzi pesanti, di ferro e si sa che la carne umana è niente di fronte al ferro», spiega Alessio Biondi, coordinatore nazionale mari e porti del sindacato Usb. «Eseguire correttamente le procedure però rallenta i tempi di produzione e ciò ha un costo per l’azienda. Nei porti lo vediamo bene: per aumentare la produttività vengono attivati dei meccanismi che velocizzano il lavoro ma che portano poi a infortuni e morti che si sarebbero potuti evitare».
Salari e sicurezza
A fare il gioco delle grandi aziende è una divisione interna tra lavoratori del porto, stabilita dalla legge 84/94, che garantisce i diritti di alcuni lasciando invece altri in balia delle logiche distorte della produttività a tutti i costi. Alcuni operatori del porto godono infatti di maggiori tutele e non possono essere pagati sotto una certa soglia, mentre altri, quelli a cui le aziende si rivolgono con più frequenza, si ritrovano schiacciati dalla gara al ribasso del costo del loro lavoro, finendo in una spirale discendente fatta di straordinari, pagamento “a cottimo” e di ricatti salariali.
A causa della logica dell’appalto, le aziende hanno abbassato sempre di più le proprie tariffe per ottenere i lavori da quelle società – in cui figurano sempre come soci i grandi armatori navali – che hanno avuto in concessione le banchine. Il carico di lavoro per i portuali è quindi aumentato, mentre gli stipendi sono diminuiti.
Questo gioco al ribasso però ha danneggiato anche alcune imprese medio-piccole, mentre quelle già grandi hanno espanso ulteriormente il loro potere e la capacità di dettare le regola del gioco. «Le banchine sono state date in concessione pluridecennali a enti privati che hanno monopolizzato il mercato senza vantaggi per il territorio, abbassando livelli salariali e aggravando il carico del lavoro con effetti sul fronte sicurezza», rimarca Biondi.
Effetti che sono stati ben visibili a febbraio, quando due operai sono morti a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro nei porti di Civitavecchia e di Trieste. Il primo è rimasto schiacciato da un mezzo per il trasporto container, mentre il secondo è caduto mentre faceva retromarcia con il muletto.
Due morti causate come tante altre volte da disattenzioni, da gesti compiuti senza rispettare le regole sulla sicurezza perché il carico e scarico deve essere compiuto nel minor tempo possibile. «L’incidente a Trieste è stato mortale perché l’operaio lavorava da solo e perché banchina non aveva delle semplici barriere di protezione».
Il lavoro nei porti però non deve necessariamente continuare ad essere così. Come spiega Biondi, il primo passo che lo Stato deve compiere è riconoscere che quello dei portuali è un lavoro usurante, abbassando così i tempi di pensionamento.
Per evitare invece il costante ribasso degli stipendi è necessario creare un polo unico della manodopera, garantendo così a tutti lo stesso grado di tutele sul fronte dei diritti e del salario, che dovrebbe a sua volta essere adeguato all’inflazione
. Ma a intervenire può essere anche l’Autorità Portuale, che ha il potere di revocare le concessioni ai privati e di richiamare al rispetto dei livelli minimi di sicurezza, manutenzione e dei diritti dei lavoratori.
Per portare avanti queste istanze, il sindacato Usb ha avviato un’interlocuzione con il ministero dei Trasporti e rilancerà le sue proposte all’Assemblea nazionale porti indetta a Roma il 25 marzo.
Armi e porti
L’abbassamento dei livelli di sicurezza nei porti però non è un problema che riguarda solo i lavoratori. Alcuni tra gli scali più importanti d’Italia sorgono a ridosso delle città e hanno vicino impianti di stoccaggio di materiale pericoloso, raffinerie e industrie pesanti.
I porti dunque sono parte di un ecosistema in cui un incidente in un impianto può avere ripercussioni anche sugli altri, con un effetto domino che rischia di coinvolgere le stesse città e i suoi abitanti.
Questo aspetto è legato a doppio filo al transito e al carico/scarico di materiale militare che avviene in alcuni porti italiani, non sempre nel totale rispetto della sicurezza o in assoluta trasparenza.
«Genova ha un settore di stoccaggio molto vicino a una zona della città, mentre affianco al porto di Livorno sorge il petrolchimico dell’Eni dove si trovano carburanti, gas e materiale altamente inquinante», evidenzia Biondi.
Gli scali livornese e genovese sono tra i primi in Italia per passaggio di prodotti dell’industria bellica nazionale e straniera, ma sono gli stessi (seppur non gli unici) in cui i livelli di sicurezza sono spesso sacrificati in nome del profitto.
«I carichi di armi o di esplosivi devono essere movimentati in zone apposite di stoccaggio e i container che li contengono devo essere identificati correttamente e in modo più dettagliato. Sappiamo che dentro certe casse c’è del materiale esplosivo, ma un conto è maneggiare dell’idrogeno, un’altra del tritolo».
Il problema in parte si risolverebbe con l’applicazione della legge 185/90. La norma stabilisce che il transito di materiale militare per il territorio italiano non è consentito se diretto verso paesi coinvolti in conflitti o che non rispettano i diritti umani, ma l’applicazione di questo comma è sempre molto controversa e si è spesso assistito a un rimpallo di responsabilità.
La legge 185/90 dovrebbe per esempio impedire il passaggio per Genova delle navi della compagnia saudita Bahri, che come riporta periodicamente il Collettivo dei portuali genovesi trasportano carri armati, elicotteri e munizioni dagli Usa all’Arabia Saudita.
Ma con la guerra ancora in corso tra i lavoratori vi è anche il timore che gli scali in cui passano le armi – dirette o meno in Ucraina – possano diventare degli obiettivi sensibili in caso di escalation.
La richiesta quindi è che il materiale militare transiti solo dai porti militari, già dotati di aree di stoccaggio apposite e di sistemi di difesa di cui le infrastrutture civili non sono fornite. Inoltre la maggiore distanza delle aree militari dalle città rappresenta un vantaggio sul fronte sicurezza.
«L’incidente di Beirut del 2020 ci ha insegnato che un’esplosione in un porto può distruggere mezza città», conclude Biondi. L’Italia, certo, non è il Libano, ma basta un attimo di distrazione causato da un ennesimo straordinario sottopagato per condannare a morte un operaio o per causare un incidente in grado di coinvolgere anche gli abitanti della città.
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