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Processo alla Lega di Salvini, lo spettro di nuovo partito autonomista del nord e la base in rivolta

«An ciaparà ona palàda», tradotto dal bergamasco vuol dire «prenderemo una legnata». La profezia non è di un fine politologo, ma di una militante della Lega fin dal 1994. Alla fine aveva ragione. E se Matteo Salvini avesse ascoltato di più la base e i militanti nei giorni che hanno preceduto il voto forse sarebbe corso ai ripari. Invece Matteo Salvini si comporta come se non fosse accaduto nulla. 

Il giorno del giudizio è arrivato, riunioni carbonare sono in corso e continueranno nei prossimi giorni. C’è chi lavora già, da quanto risulta a Domani, a un nuovo soggetto politico, nordista e autonomista, nel solco della vecchia Lega Nord, “tradita” dalla nuova Lega Salvini premier, il partito fondato da Salvini nel 2017 di matrice nazionale e sovranista. 

Nonostante il tonfo Salvini finge di sentirsi al sicuro, dice di essere “sorpreso” dal crollo, ostenta sicurezza sul suo futuro da guida suprema della Lega. La conferenza stampa convocata la mattina dopo le elezioni è la sintesi perfetta dei quasi dieci anni di leadership di Salvini nella Lega. Abile nel non dare risposte alle questioni spinose.

Risponde sulle bollette con calma, alza il tono e si agita quando i cronisti fanno le domande spinose, gli chiedono del tonfo al nord e del sorpasso di Fratelli d’Italia in Veneto e Lombardia. Salvini reagisce più che da segretario da ragioniere: snocciola numeri sugli eletti, «puntiamo a cento parlamentari», sui comuni amministrati dalla Lega, più varie ed eventuali. Solo in chiusura apre a un dibattito interno ma senza troppa convinzione: «Domani ho riunito il consiglio federale per discutere di idee». Nessun passo indietro, dunque. Perché la colpa è in fondo dell’essere stati responsabili in un momento nero per il paese: «Gli elettori hanno premiato chi ha fatto opposizione, chi ha fatto cadere il governo draghi sui termovalorizzatori. Noi ci facciamo carico di aver portato sulle spalle un peso non indifferente». Colpa di Draghi, quindi, mica di Salvini.

Processo al Capitano

Gianni Fava, storico leghista del Nord, ha definito le iniziative degli ultimi mesi del capitano il canto del cigno di Salvini e della sua Lega. Perdere il 10 per cento di voti in 5 anni merita quantomeno una riflessione, sostengono i militanti e un pezzo della dirigenza, che però non vuole esporsi. Del resto anche lo stato maggiore del partito ha le sue responsabilità: per mesi ha borbottato e filtrato malumori, sempre nell’anonimato.

Solo Paolo Grimoldi, ex deputato non ricandidato e anima nordista del movimento, ha scritto nelle ore calde successive ai risultati elettorali quello che ormai da Firenze a Bergamo pensano un po’ in tutte le sezioni: «La dignità imporrebbe dimissioni immediate, basta con la barzelletta del regolamento, dei “congressini” e del covid, la questione è politica! Serve un unico congresso, quello della gloriosa Lega Lombarda! Va ridata la voce alla base, ai sindaci e ai territori attraverso una Lombardia di rappresentanti democraticamente votati ed acclamati per meriti. Una volta eravamo per abolire i prefetti perché nominati dallo stato centrale, oggi abbiamo una lega che sembra diventata esattamente quello che dovevamo combattere. La rappresentanza dal basso sarebbe l’ABC dell’autonomia…nelle prossime ore vi farò sapere iniziative concrete». I commenti sotto il post di Grimoldi hanno un tenore di questo tipo: «Ciao Paolo , ormai troppo tardi per tutto , sono 4 o 5 anni che non ci avete ascoltato, e il tuo capo , a voltato le spalle soprattutto al nord , queste sono le conseguenze». Poche ora più tardi l’attacco di Grimoldi, i militanti si sono mossi «per chiedere un congresso della Lega Lombarda, raccogliamo  via telefono o Whatsapp informalmente firme congresso Lega Lombarda». 

La “cosa” del Nord

Grimoldi ha dato così il via alle danze attorno al corpo fragile del capitano. A Domani dice: «Intendevo le dimissioni del commissario della Lega Lombarda, che certo è stato nominato da Salvini. È sotto gli occhi di tutti la sconfitta clamorosa frutto di una gestione personale e della totale assenza di democrazia interna».

L’ex parlamentare ritiene che sul piano nazionale siano altri a doversi esprimere e auspica che lo facciano senza più perdere tempo: «Penso che i signori Luca zaia, Massimiliano Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli, abbiano molta più visione politica e autorità per parlare e analizzare la situazione al livello nazionale e generale».

Secondo molti militanti e dirigenti  lombardi si è chiuso un ciclo politico. «Nei prossimi giorni andremo avanti a chiedere congressi urgenti. Dire, come ha fatto Salvini, che li faremo a primavera vuol dire non avere il coraggio di affrontare la crisi, ed  irrispettoso per la base non fare subito congressi regionali. La questione è politica e il congresso si può fare domani mattina. Ai militanti da anni gli si chiede di fare i gazebo e poi nessuno li consulta per decidere le cariche», sostiene Grimoldi.

Fonti interne al partito molto vicine ai governatori del nord( Zaia, Fontana, Fedriga), confermano che è già in atto un processo di riflessione sulla creazione di un movimento ispirato alla vecchia Lega Nord. Già nelle prossime settimane potrebbe essere convocata un’assemblea per discutere del progetto. Manca solo la data, il luogo ipotizzato è la Brianza, in Lombardia. Con molti leghisti pronti a salutare il partito nuovo e sovranista Lega Salvini premier.

E il nome è uno dei nodi da sciogliere e allo stesso tempo il primo grande ostacolo al superamento della fase Salvini. Se per ipotesi si trovasse un successore di Matteo, dovrebbe guidare un partito personale, un movimento che ha nel nome la sigla “Salvini premier”. Il tema è dibattuto da tempo, «nelle feste estive del partito persino Giorgetti ha posto il tema del cambio di nome», aggiunge Grimoldi. Più facile che nasca un qualcosa di nuovo ma identico alla Lega Nord, è il parere espresso in una recente intervista rilasciata a questo giornale da In un’intervista a questo giornale dall’ex ministro Roberto Castelli, leghista bossiano della prima ora. In pratica una “cosa” nordista con uno scopo preciso: «Autonomia, autonomia, autonomia, a tutti i costi», come del resto ricordava Zaia, dal palco del raduno di Pontida una settimana prima del voto. Il “Doge” presidente del Veneto ha commentato l’esito del voto con parole molto nette, a differenza del Capitano Salvini. «È innegabile come il risultato della Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo trovando semplici giustificazioni».

Zaia ha definito «delicato» il momento, da «affrontare con serietà per capire fino in fondo quali aspetti hanno portato l’elettore a scegliere diversamente». Il presidente veneto avverte poi la maggioranza di cui farà parte la Lega: «Ciò non toglie che temi come l’autonomia restino per noi un caposaldo, sul quale non transigeremo minimamente nei rapporti con il prossimo Governo». 

«Salvini ha pagato per la sua linea ondivaga su tutto», ragiona un deputato uscente, «prima sta con Draghi, poi esce dal governo Draghi scontentando sia l’elettorato favorevole all’alleanza sia quello contrario, sulla Russia ha fatto ha fatto lo stesso». La linea confusa è dovuta, secondo lo stesso, alla mancanza di democrazia interna, perché «se ci fossero organismi eletti si sarebbe fatta la sintesi delle varie posizioni e ci sarebbe stata una linea unica da presentare all’esterno». È la scuola di Umberto Bossi: nella sua Lega si discuteva, si litigava, ma sempre nelle riunioni e nei congressi. Una volta trovata la quadra la linea era quella e la difendevano tutti.

La voce della base

Salvini ha pagato caro la distanza dai territori. Persino Attilio Fontana, governatore della regione, ha confidato ad alcuni compagni di partito di sentirsi deluso e poco supportato ultimamente da Salvini. Se questa è la percezione di un potente leghista qual è Fontana, è facile immaginare come si senta la base nelle province che hanno fatto la storia della Lega Nord.

Nella sezione di Alzano Lombardo, per esempio. Qui, seppure pubblicamente Salvini incarna l’eroe che ha portato la Lega al massimo fino al 34 per cento delle europee, i cimeli appesi nella sede del partito tradiscono nostalgia di un’altra Lega. Il ritratto di Umberto Bossi con il pugno alzato e il sigaro in bocca occupa una parete intera della sede della Lega di Alzano, il paese della val Seriana, provincia di Bergamo, colpito duramente dal Covid durante la prima ondata del 2020.

I simboli esterni della sezione richiamano tutti al nuovo corso: Lega Salvini premier, il nuovo partito fondato da Matteo nel 2017, in un anonimo studio di Milano di proprietà di un commercialista. Più che un partito è da subito sembrato un’alchimia finanziaria per spartire il partito in un due entità: la Lega Nord delle battaglie autonomiste agonizzante, una scatola zeppa di debiti con lo stato per via dell’obbligo di restituire allo stato 49 milioni ottenuti con la truffa sui rimborsi elettorali; la Lega Salvini premier, sovranista, nazionale, ramificata fino a Palermo e con Roma, che per i leghisti d’un tempo era “ladrona”, trasformata in laboratorio politico dell’estrema destra riunita nella nuova creatura salviniana.

Al contrario della Lega Nord, la Lega con Salvini nel simbolo è un partito costruito sul leader, mai davvero radicato nei quartieri o tra la gente, organismo cresciuto in provetta a immagine e somiglianza del capitano. Eppure alle politiche del 2018 e alle europee del 2019 ha raccolto milioni e milioni di voti. Prima il 17,3 per cento, poi il 34. Consenso, però, crollato altrettanto rapidamente. E forse è questa alta volatilità che ha convinto i militanti delle sezioni del nord, nei territori dove è nata la Lega di Bossi, a cambiare solo l’involucro esterno delle sezioni agghindandolo con le facce del leader del momento, lasciando però intatte le sale interne, con i simboli tradizionali e i cimeli dell’autonomismo radicale.

Ad Alzano Lombardo, come in altre sedi della provincia, all’interno prevale il verde padano, il mito di Bossi, la stella alpina. Qui nel 2018 la Lega aveva preso il 33 per cento, nel 2022 il 16. «Sulla leadership si vedrà», dice Efrem Carrara, il segretario della Lega di Alzano, fedele al Carroccio dal 1995, «quando Bossi lottava per uno stato federale». Secondo lui Salvini è ancora forte, nonostante tutto. Ma ammette: «Ai militanti mancano i congressi, al nostro interno certamente discutiamo del futuro della Lega, tuttavia non esiste una vera alternativa al momento. Intanto, spiega Carrara, rispetto al 2019 un calo di iscritti c’è stato anche nella sua sezione. Segnali dal territorio che Salvini non ha saputo cogliere e con cui ora dovrà fare i conti.

Più netta è la posizione di un gruppo di sindaci e militanti della Valle Imagna, sempre provincia di Bergamo. Una cinquantina di loro aveva firmato a luglio una lettera diretta alla segreteria regionale e nazionale in cui denunciavano l’assenza di democrazia interna. “Riflessioni di un militante”, era il titolo della missiva. «Stiamo raccogliendo sconfitte ovunque, ci siamo chiesti perché?», è un passaggio premonitore della lettera. Nel comune più importante di questa valle, Sant’Omobono, la Lega aveva preso il 38,5 per cento nel 2018. Il voto del 25 è una disfatta: secondo partito con il 16 per cento, superato da Fratelli d’Italia al 40. Il sindaco di Sant’Omobono è tra i firmatari della lettera di protesta. E anche i militanti della sezione. Tra gli sgarbi subiti la mancata candidatura di Daniele Belotti, «sempre presente sul territorio, ha portato le istanze della provincia in Parlamento».

Belotti è un leader carismatico in questa zona, è lo speaker del raduno di Pontida. La sua mancata candidatura per fare spazio ad altri «che non sanno neppure come è fatta la provincia di Bergamo», è stato motivo ulteriore di lacerazione tra la base e la leadership. Si è preferito per esempio inserire in lista come capolista Giulio Centemero, il tesoriere amatissimo da Salvini e con una condanna in primo grado per finanziamento illecito, nome che ritorna spesso nei recenti scandali finanziari della Lega. La lettera contro la gestione personalistica del partito era stata firmata, da quanto risulta a Domani, anche da un consigliere regionale: Alex Gallizzi, il quale ha preferito per ora non commentare la sua scelta.

Il dissenso dei nordisti è dunque ormai dilagante. Attraversa i comuni, è dentro il consiglio regionale, sfocia a Roma dove c’è un gruppo di ex parlamentari pronti a compiere scelte radicali. La voce del nord, il richiamo allo slogan “Padroni a casa nostra”, rievocato da Zaia a Pontida, è orfana di rappresentanza. Non si riconosce più in Salvini.

Fino al voto hanno mantenuto il profilo basso. Ora però la resa dei conti sarà inevitabile.  La Lega persino in Toscana, dove alle scorse elezioni aveva totalizzato uno straordinario 17,40 per cento, adesso vale il 6. Anche qui Salvini aveva deciso di cambiare la dirigenza locale, cresciuta nella Lega Nord, per affidarla alla fedelissima sovranista Susanna Ceccardi. I risultati di questa strategia fondata sul culto del “Credo in Matteo” hanno dato torto a Salvini e ragione a quei pochi che avevano tentato l’impossibile missione di riportarlo con i piedi per terra, o meglio sui territori del nord. 

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