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Una fede grande o una grande fede? – Il Quotidiano del Lazio

L’esercizio del perdono impone di mortificare il proprio orgoglio che alimenta l’istinto di vendetta e la sete di giustizia o di rivalsa nei confronti dell’offensore. La riconciliazione rappresenta un aspetto essenziale della vita comunitaria: le relazioni fraterne che si stabiliscono all’interno di essa non possono prescindere dal perdono, che i credenti invocano dal Padre come un dono, impegnandosi a loro volta a praticarlo. Per farlo i discepoli dicono al Signore: “Accresci in noi la fede!” (Lc. 17, 5-10).

Aggiungere fede

Non sarà mai semplice né scontato perdonare le offese ricevute da parte di un fratello o una sorella, soprattutto quando sono reiterate e umilianti. I discepoli ne sono ben coscienti e chiedono a Gesù che possa aumentare la loro fede. La richiesta dei discepoli deve essere intesa nel senso di rendere più salda, radicata, tenace la loro fede, che si è mostrata vacillante nella tempesta sul lago. Avevano paura di affondare e di morire, e Gesù li rimproverò: “Dov’è la vostra fede?”. Il pericolo della morte, così come il perdono, sono esperienze che rivelano la fragilità e, talvolta, l’inconsistenza della fede umana.

Una fede grande o una grande fede?

Gesù accoglie la richiesta dei suoi discepoli, dichiarando che basterebbe una fede grande quanto un chicco di senape, le cui dimensioni sono così ridotte che difficilmente può essere trattenuto tra le dita, per realizzare cose inimmaginabili da un punto di vista umano. Eppure, basterebbe una quantità di fede così modesta per sradicare, ricorrendo solo alla parola, un albero tanto robusto come il gelso (v. 6).

E’ senza dubbio una dichiarazione iperbolica (esagerata), tipica della predicazione di Gesù; tuttavia, essa è molto efficace per convincere i discepoli che la fede non si misura da un punto di vista quantitativo, bensì qualitativo. La fede implica una relazione di piena fiducia nel Cristo e di totale affidamento a Dio; impone all’uomo di rinunciare alle sue velleità mondane e alle sue ambizioni di potere per poter accogliere il disegno di Dio e compiere la sua volontà.

Senza gratitudine

Gesù paragona la sua relazione con i discepoli al rapporto tra il padrone e il suo servo. Il servo non è autonomo, non gode di libertà di parola, di pensiero o di movimento; è totalmente subordinato alle disposizioni del suo padrone.

Le mansioni, che egli è tenuto a svolgere, sia che si tratti di arare il campo o di pascolare il gregge, non obbligano il suo padrone a essergli riconoscente; anzi, rientrato in casa, il suo compito non è terminato, perché è tenuto ad apparecchiare la cena per lui e, solo dopo, potrà provvedere per sé.

Non gli è dovuta alcuna gratitudine, perché tutto ciò che egli ha fatto rientra nei suoi doveri; ha ottemperato ai suoi obblighi nei confronti del padrone. Non può attendersi nessuna forma di ricompensa, perché non può vantare diritti né crediti nei confronti di colui che dispone della sua vita.

Servi inutili?

La condizione del servo che agisce obbedendo ai precetti del padrone corrisponde al ritratto dei discepoli. Anch’essi, dopo aver fatto tutto ciò che è stato loro richiesto, possono definirsi “servi inutili” (v. 10). L’aggettivo “achreios” caratterizza il servo/discepolo che non pretende nulla dal suo padrone; ha operato in obbedienza a quanto gli è stato ordinato dal suo signore.

Il motivo del fare o dell’agire in conformità alla volontà divina o alla parola del Signore è un tratto peculiare del discepolato: solo chi ascolta e mette in pratica le parole del Cristo è paragonabile all’uomo che ha edificato la sua casa sulla roccia; appartenere alla famiglia che Gesù ha stabilito sulla base dei legami spirituali comporta l’accoglienza e la pratica del suo messaggio.

E’ proclamato beato il servo/discepolo che, al suo ritorno, il padrone troverà a svolgere fedelmente e saggiamente l’incarico affidatogli. Pertanto, l’inutilità dei discepoli non deve essere concepita come se i discepoli non debbano sentirsi utili alla causa del Vangelo; anzi, vivendo secondo le indicazioni del Maestro, essi prendono parte al compito di diffondere il Vangelo fino ai confini della terra, senza trarne beneficio o guadagno sul piano personale. Difatti, la ricompensa terrena del discepolo è il discepolato stesso, perché la sequela gli consente di vivere in relazione con il Cristo e di poter entrare nel regno di Dio e così ottenere la vita eterna.

“Credere in Gesù Cristo”

Cosa vuol dire aver fede? Non solo credere ad alcune verità, ma soprattutto affidare al Signore la propria vita, essere disposti a mettere in pratica la sua Parola. Appare del tutto bizzarro chi afferma di “avere molta fede”, ma di “essere poco praticante”, esattamente come chi dicesse che vuole tanto bene a una persona, ma non è disposto a fare proprio nulla per lei.

Quello che Gesù chiama “fede” ha a che fare con l’amore, un amore autentico, forte, che cambia tutta la vita. Ne basta poca per riuscire a compiere azioni meravigliose. La fede riesce a vincere l’odio e la cattiveria con la bontà, la mitezza, il perdono. E’ in grado di superare difficoltà insormontabili perché è dotata continuamente di pazienza e di dolcezza, di saggezza e di lungimiranza. Si fa continuamente dono, offerta di aiuto, fino al sacrificio più grande, quello della stessa vita.

Ecco la fede che anche noi oggi chiediamo a Gesù: la fede che sorregge e trasforma, la fede che fa avvertire il sapore della bontà di Dio, una bontà smisurata. Aumenta la nostra fede, Signore, perché ci liberiamo finalmente di pregiudizi e di timori inutili e procediamo liberi e leggeri sulle strade dell’audacia evangelica.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Landi, 2022; Laurita, 2022.

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