La Gran Bretagna è una piccola economia, non più integrata con l’Europa, che stampa la propria moneta: quello che vi succede non dovrebbe interessare al di fuori dei suoi confini.
Il recente crollo della sterlina e dei titoli di stato inglesi è invece un segnale per tutti dei rischi latenti nei sistemi finanziari e in quelli insiti nella politiche monetarie per combattere l’inflazione.
A fine settembre il nuovo primo ministro Liz Truss ha annunciato a sorpresa una manovra di bilancio espansiva per rilanciare la crescita.
La manovra includeva anche un taglio delle aliquote fiscali sui redditi più elevati che ha scatenato un’ondata di proteste, e per questo è già stato ritirato.
Ma a prescindere da questo provvedimento, la grande sorpresa per i mercati è stata la decisione di usare la leva dell’espansione fiscale proprio quando l’inflazione ha sfiorato il 9 per cento, come non succedeva dal 1990, e in contrasto con la Banca Centrale (Boe) che, come le altre, aumenta i tassi e riduce la liquidità.
La reazione a catena
In pochi giorni la sterlina si è svalutata del 9 per cento rispetto al dollaro, roba da anni settanta, e il rendimento sul titolo di stato a 30 anni è salito dal 3,5 per cento a un picco del 5,1: poiché il prezzo di un titolo varia inversamente rispetto al suo rendimento, e in modo proporzionale alla sua durata, l’aumento del rendimento ha comportato una crollo del valore del trentennale inglese di oltre il 40 per cento, la dimensione di un crash della Borsa.
Se l’annuncio di una politica di bilancio espansiva provoca un’immediata svalutazione del cambio e un’impennata dei tassi a lungo termine, il messaggio è chiaro: gli investitori credono che la politica fiscale acuisca l’inflazione già elevata, e la renda duratura, togliendo credibilità all’obiettivo della Boe.
La prima lezione inglese è che la svolta restrittiva imposta della Fed, e che ha causato il forte apprezzamento del dollaro, impone a tutte le Banche centrali di seguire la politica monetaria americana, pena un deprezzamento del cambio che, a sua volta, alimenta l’inflazione che si vorrebbe invece contenere.
Già i ritardi e le esitazioni nel seguire la Fed hanno causato un’ondata di deprezzamenti delle valute di tutto il mondo.
Questo fa lievitare il costo di materie prime, fonti energetiche e molte componenti, visto il ruolo di valuta di riferimento del dollaro nel commercio internazionale e nei mercati dei capitali.
Fino a quando i rialzi della Fed si saranno esauriti e i tassi avranno raggiunto il massimo di questo ciclo, gli spazi di manovra delle Banche Centrali, Bce inclusa, saranno limitati: c’è una sola direzione in cui tassi si possono muovere.
Le vicende britanniche insegnano che se a questo si sovrappone una politica di bilancio opposta alla politica monetaria, la tempesta finanziaria è assicurata.
Per noi è un monito: la Bce dovrà accelerare il rialzo dei tassi per stabilizzare il valore dell’euro, visto il peso dell’inflazione importata in Europa. Già si attendono due aumenti da 0,75 entro la fine dell’anno.
Se i mercati dovessero percepire un intento italiano di deviare dal riequilibrio dei conti per sostenere i redditi, la crisi del nostro debito sarebbe immediata, a maggior ragione ora che la Bce ha cessato gli acquisti dei Btp.
Oggi c’è un problema in più: il pacchetto fiscale da 200 miliardi del governo tedesco per attenuare l’impatto sociale del caro energia, al posto del price cap proposto dagli italiani.
L’espansione fiscale tedesca, oltre dare un indebito vantaggio competitivo alle imprese tedesche, andando in senso contrario alla politica della Bce, rischia di indebolire ulteriormente l’euro, con conseguenze sull’inflazione, e spingere al rialzo l’intera struttura dei tassi tedeschi che si ripercuoterebbe, a parità di spread, sui tassi italiani. Anche la Germania dovrebbe andare a lezione di inglese.
Volatilità e crisi
La seconda lezione è che ogni grossa variazione dei prezzi delle attività finanziarie rischia di causare la crisi di un segmento del mercato finanziario, di qualche intermediario o di una industria, che a sua volta può avere conseguenze pervasive.
La recente crisi inglese ha infatti messo in crisi i fondi pensione inglesi che, per via della regolamentazione e del controllo dei rischi, tendono a far combaciare il rischio finanziario delle passività (le pensioni a prestazioni definite) con quello degli attivi: quando salgono i tassi a lungo termine, si riduce il valore attuale delle passività e i fondi devono aggiustare il rischio degli attivi vendendo massicciamente titoli di stato in un momento in cui ci sono pochi compratori, o con derivati e operazioni finanziarie che richiedono forti aumenti nei margini versati a garanzia.
Questo ha causato un eccesso di volatilità sui mercati e una riduzione della liquidità che a loro volta hanno messo sotto stress la struttura finanziaria dei fondi pensione.
Per evitare che la crisi dei fondi pensione diventasse sistemica, e la sterlina precipitasse, la Boe è dovuta intervenire comprando massicciamente titoli di stato e stabilizzando, per ora, sterlina e mercati.
Ma così facendo ha sconfessato la sua determinazione nella lotta all’inflazione perseguita proprio tramite la fine del quantitative easing, con la vendita dei titoli di stato in portafoglio, e l’aumento dei tassi.
La Boe ha dunque segnalato che in caso di crisi finanziaria o di recessione, sacrificherebbe l’obiettivo di inflazione in nome della stabilità.
L’aspetto sorprendente di questa vicenda inglese è che la reazione della Boe invece di venir percepita come rilevante solo localmente, ha indotto temporanei rialzi in Borsa e riduzione dei tassi a lungo termine sia negli Stati Uniti sia nell’area euro: secondo gli investitori, dunque, si sta formando il convincimento che tutte le banche centrali in situazioni analoghe opterebbero per la stabilità finanziaria, accettando il rischio di un livello di inflazione nel lungo periodo stabilmente sopra al 2 per cento.
Non a caso, il mercato a termine sconta già una riduzione significativa dei tassi della Fed dalla fine del prossimo anno.
Questo trade off tra stabilità finanziaria e obiettivo di inflazione renderà oltremodo difficile il compito anche della Bce, e ridurrà ulteriormente le sue possibilità di manovra in caso di tensioni sul nostro mercato del debito. Meglio che il nostro futuro Governo apprenda bene la lezione inglese.
Dalla volatitlità alla crisi
Questo ci porta alla terza lezione. Gli episodi di estrema volatilità dei mercati e gli shock macroeconomici rischiano sempre di produrre crisi finanziarie.
Il problema è che queste crisi emergono solo diverso tempo dopo, e quasi sempre è difficile individuare in anticipo quali saranno le situazioni critiche da cui scaturirà la crisi.
E’ sempre stato così. Il caso inglese ha evidenziato la criticità dei fondi pensione.
C’è poi Credit Suisse che per ora pare un caso isolato di mala gestione: ma dovuto anche al finanziamento di operazioni azionarie con forte leva che la caduta dei mercati, le aspettative di recessione e il rialzo dei tassi hanno messo in crisi.
Quante altre operazioni di questo tipo ci sono in giro? Quanta leva c’è in tante operazioni di private equity? E le banche hanno debitamente preso in considerazione le ricadute della guerra in Ucraina e della crisi energetica?
Sono solo interrogativi senza risposta ma servono a ricordare che gli effetti degli shock finanziari degli ultimi tempi potrebbero ancora essere invisibili.
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