Iwao Hakamada ha un solo obiettivo: morire, in santa pace, riconosciuto innocente. Le sue condizioni di salute, di ottantasettenne affetto da demenza senile e soprattutto fiaccato da decenni d’isolamento nel braccio della morte del Giappone, non rendono ottimisti. Ancora meno, l’estenuante lentezza del sistema giudiziario locale.
Ma né lui, né i suoi familiari, né i suoi avvocati disperano, soprattutto ora che è accaduto qualcosa che, se non unico, è estremamente raro nella storia della pena capitale in Giappone. Lunedì 13 marzo l’Alta corte di Tokyo ha stabilito che Hakamada ha diritto a un nuovo processo, giacché quello che terminò con la condanna a morte fu iniquo. Era l’11 settembre 1968: quasi cinquantacinque anni fa.
Quell’anno Hakamada è stato condannato all’impiccagione per un quadruplice omicidio commesso nel 1966 nella città di Shizuoka: del suo datore di lavoro – un produttore di miso –, della moglie e dei loro due figli. Un terribile fatto di cronaca: quattro morti accoltellati nella loro abitazione, successivamente data alle fiamme.
Il processo si basava sulla confessione iniziale, estorta con maltrattamenti e per sfinimento dopo 20 giorni di estenuanti e continui interrogatori, in assenza dell’avvocato. La condanna è stata confermata nel 1980. Da allora, per oltre 30 anni, dal punto di vista giudiziario non è accaduto nulla.
Nel frattempo, nel braccio della morte, la vita e la salute di Hakamada sono andati in frantumi. L’interazione con gli altri detenuti era minima, i contatti col mondo esterno circoscritti a visite sporadiche e sorvegliate dei familiari e degli avvocati. Non poteva guardare la televisione né svolgere progetti o attività personali. A eccezione dell’utilizzo del bagno e di due o tre sessioni di esercizio fisico a settimana, ciascuna della durata di mezz’ora, non poteva muoversi all’interno della cella e, di giorno, doveva rimanere sempre seduto.
Il sistema giapponese
Il sistema della pena di morte in Giappone è pensato per fare impazzire: i condannati non vengono avvisati in anticipo della data dell’impiccagione sulla base dell’assurda idea che, non sapendo, soffriranno di meno. Ogni volta che nel corridoio del braccio della morte si sentono i rumori degli stivali, ogni volta che quei rumori si avvicinano, si pensa che sia il proprio turno, senza nessuno da poter avvisare, senza nessuno da salutare per l’ultima volta. I familiari vengono informati a esecuzione avvenuta.
Hakamada ha scritto lettere senza senso fino all’agosto 1991, poi ha smesso. Nel 1994 ha deciso di non ricevere più visite dalla sorella Hideko – ora novantenne – e ha cambiato idea solo 12 anni dopo. Nel frattempo, nel 2007, gli è stata ufficialmente diagnosticata l’infermità mentale.
Nel 2010 è uscito un film che raccontava la sua storia: Box – The Hakamada case, di Takahashi Banmei. Ha fatto il giro del mondo e incetta di premi, in Italia è stato proiettato in collaborazione con Amnesty international alla Festa internazionale del cinema di Roma.
Il 27 marzo 2014 la corte distrettuale di Shizuoka ha accolto la richiesta di un nuovo processo, basata su 600 elementi di prova a sostegno dell’innocenza di Hakamada. Il principale: le tracce del suo dna sui vestiti insanguinati delle vittime erano posticce, un indizio di colpevolezza creato ad arte dagli inquirenti. Quattro giorni dopo, la procura ha fatto ricorso e si è bloccato tutto. Fortunatamente, non si è opposta alla scarcerazione temporanea, dopo – a questo punto – oltre 45 anni di braccio della morte.
Nel 2018 l’Alta corte ha dato ragione alla procura. Nel 2020 la Corte suprema ha accolto un ricorso della difesa di Hakamada e rimandato il caso all’Alta corte. Lunedì scorso, finalmente, la decisione.
La procura potrebbe ancora una volta opporsi. La speranza è che non lo faccia e che Hakamada possa essere in aula, nel processo che ora dovrà essere nuovamente celebrato, e che ascolti quella parola che attende sia pronunciata da oltre mezzo secolo: innocente.
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