Altri spoiler dal Meloniverso, il piano della realtà parallelo che rischia di aprirsi dopo le elezioni del 25 settembre: ora il problema è che la nuova Sirenetta è una ragazza nera, invece che… un mostro dalla testa umana e il corpo d’uccello, che con il suo canto seduce i marinai per divorarli, come nell’antica mito greco? No, è nera invece che bianca, e quindi ben diversa dalla Ariel dell’adattamento animato del 1989. E chi se ne frega, direte voi. O magari: bene, finalmente una principessa Disney nera, discorso chiuso.
Fate male, perché qui non si tratta di essere razzisti, a quanto pare, ma cultori della filologia, o magari della biologia marina: sott’acqua non arriva la melanina, hanno sostenuto alcuni commentatori piuttosto agguerriti.
I nerd sono fatti così, non è una cosa personale, rompono i coglioni in modo trasversale.
La loro filologia sa essere impietosa, e ci ricorda che nel canone occidentale ci sono ben pochi neri. E quindi – spiace – ben pochi ruoli di neri da interpretare e modelli neri in cui riconoscersi.
Se non è razzismo ma semplice filologia, beh, forse quello che abbiamo è un grosso problema con la filologia. Anzi probabilmente dovremmo proprio smettere di fare a gara a chi è più o meno razzista e concentrarci sulle conseguenze delle nostre azioni.
Razzismo sistemico
Per questo è utile la categoria di “razzismo sistemico”. Anche se suona come il solito pomposo concetto passepartout ci insegna una cosa importante, ovvero che a essere razzisti non sono necessariamente gli individui ma gli effetti composti, involontari, delle loro azioni. Siamo ben lontani dal politicamente corretto e da ogni visione moralistica.
A gettare luce sui meccanismi impersonali del razzismo sistemico è stata, fin dagli anni 1980, una corrente nota come Critical Race Theory, ovvero “teoria critica della razza”.
Per i giuristi americani si trattava di rispondere a una domanda che non trovava risposta nelle teorie dell’epoca: perché se la legge garantisce – sulla carta – un’uguaglianza formale a tutti i cittadini, allora le minoranze (in particolare gli afroamericani) continuano a non godere – in sostanza – delle stesse condizioni di vita dei bianchi in termini di accesso al lavoro, di reddito, di riconoscimento?
La risposta è che il sistema meritocratico è strutturalmente fallato da meccanismi invisibili e diffusi che riproducono le ineguaglianze. Un razzismo strutturale, sistemico appunto.
Il concetto indica che in una società possono crearsi delle forme di esclusione indipendentemente da ogni “intenzione” razzista, semplicemente attraverso il libero gioco di abitudini, aspettative, preferenze e norme interiorizzate.
La filologia dei nerd, ad esempio, non è razzista: semplicemente ricorda in ogni momento ai neri che sono gli ultimi arrivati e che vivono in una società fondata su canoni e tradizioni perlopiù bianchi.
Pensiamo anche all’effetto perverso che produce in un sedicenne afroamericano, nel momento di scegliere il proprio percorso di studi, la consapevolezza di appartenere, secondo le statistiche, a una categoria sociale che ha una probabilità di tre volte superiore alla media di finire in carcere.
O convincendosi – che sia vero oppure no, anche se sappiamo che spesso è vero – che in un colloquio di lavoro gli verrà preferito un bianco.
Filologia o inclusione?
Questo spiega l’attenzione degli attivisti per fenomeni sociali apparentemente innocui come quelli linguistici: sono condizionamenti invisibili e diffusi che, sul lungo periodo, contribuiscono a plasmare l’immaginario collettivo. Ma devono “fare massa” per produrre il loro effetto. Poiché ogni singola occorrenza appare invece veniale, le reazioni di condanna non possono che apparire sproporzionate.
La Critical Race Theory propone un’alternativa all’approccio liberale universalista, secondo cui la razza “non esiste”, percepita come una forma di cecità (color-blind) rispetto alle ineguaglianze socialmente associate al colore della pelle.
Siamo realisti: difficilmente ci sarà spazio per questi temi nell’Italia dei prossimi cinque anni.
Già ora una parte maggioritaria della popolazione, anche di sinistra, vede nelle scelte inclusive delle multinazionali americane un’inutile forzatura. Vogliamo dire che sono tutti razzisti?
Non solo è controproducente, ma anche sbagliato: nessuno è in grado di leggere quel che c’è davvero nel cuore umano.
Se vogliamo contestare l’opportunità di certe posizioni, va fatto concentrandosi sugli effetti. È più importante la filologia o l’inclusione?
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