Dal 24 febbraio Putin ha minacciato chiunque interferisse con i piani russi di «conseguenze mai viste prima», dichiarandosi pronti a tutto. In quel tutto rientra anche l’opzione nucleare, che il 27 febbraio ha nuovamente evocato ordinando di porre le forze di deterrenza russe in «regime speciale di servizio da combattimento».
Espressione che non corrisponde a un reale livello di prontezza operativa, ma è un segnale che ha voluto dare ai paesi occidentali per aver risposto all’invasione con dure sanzioni, armi e dichiarazioni di condanna da parte della Nato.
Il Cremlino ha anche svolto test balistici per dimostrare la capacità russa di colpire eventuali bersagli in Europa e ha sostenuto che le sanzioni occidentali corrispondono di fatto a una dichiarazione di guerra.
A seguito della disfatta russa sul fronte di Lyman e dell’avanzata ucraina su Kherson a sud, si sono intensificate le voci di una possibile prova di forza con armi nucleari.
A fine settembre Putin ha detto che gli Stati Uniti hanno già creato un precedente lanciando bombe atomiche sul Giappone e che quindi la Russia non farebbe nulla di nuovo in Ucraina.
L’ex presidente Dmitri Medvedev ha ribadito il diritto a impiegare armi nucleari qualora vi fosse una minaccia esistenziale per la Russia.
L’annessione illegale di quattro oblast ucraini, proclamata a seguito dei referendum farsa di settembre, per alcuni può avvicinare questo rischio perché la loro liberazione è considerata a Mosca come un attacco al territorio nazionale.
Sia l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, che conosce bene Putin, sia il generale David Petraeus, ex direttore della Cia, hanno invitato a prendere sul serio la minaccia nucleare del Cremlino.
Anche il presidente americano Biden, interrogato sul punto, ha ripetuto tre volte di non farlo, perché «cambierebbe radicalmente il volto della guerra».
Occorre analizzare la questione sotto tre profili: quello della dottrina nucleare delle principali potenze e come influenza le decisioni politico-militari, quali sono gli arsenali a loro disposizione, infine, in quali scenari potrebbero effettivamente usarli e quale sarebbe la reazione internazionale.
La dottrina
Dopo la guerra fredda, la Russia ha rivisitato la propria dottrina nucleare. Intanto occorre distinguere l’arsenale nucleare tattico da quello strategico, che si differenzia per il potenziale distruttivo misurato in chilotoni ma anche nel raggio di azione dei missili balistici usati come vettori.
La teoria della “distruzione mutua assicurata” (Mad) è alla base del principio di deterrenza strategica nucleare e garantisce che in caso di attacco con risposta speculare, le due maggiori potenze subirebbero danni irreparabili.
Con il trattato New Start del 2010, Washington e Mosca hanno limitato il numero delle proprie testate nucleari montate su vettori a 1550, in base all’idea che nessuna delle due parti possa distruggere l’arsenale avversario con un primo attacco, mantenendo così un delicato equilibrio di deterrenza e limitando la proliferazione.
Per quanto riguarda le armi nucleari tattiche, invece, secondo alcuni analisti Mosca ha adottato una strategia di «escalation per la de-escalation», cioè minacciare apertamente l’uso di armi nucleari tattiche nel caso in cui un conflitto convenzionale stesse per essere vinto dalla Nato o altri avversari.
La dottrina russa combina deterrenza nucleare e forza militare, nella consapevolezza di non poter competere in una guerra alla pari con l’Alleanza Atlantica, a livello tecnologico e persino operativo, come dimostra il rendimento in Ucraina.
Un ukaz, il decreto presidenziale russo, che risale al 2020 stabilisce i “Fondamenti della politica statale della Federazione Russa nel campo della deterrenza nucleare”.
Il documento consiste in sole sei pagine che riassumono le condizioni per l’uso di queste armi. In sintesi, sono quattro i casi in cui il presidente russo, e solo lui, può autorizzarlo: il lancio di missili balistici verso la Federazione russa, un attacco nucleare o con altre armi di distruzione di massa sul proprio territorio, un attacco che potrebbe mettere fuori uso gli arsenali nucleari russi e, infine, un’aggressione con armi convenzionali che ponga una “minaccia esistenziale”.
Il decreto sui Fondamenti non chiarisce affatto cosa si intenda per tale minaccia, lasciando quindi un ampio margine discrezionale alla leadership politica.
Non aiutano neppure la Strategia di sicurezza nazionale russa e il documento consolidato di dottrina delle forze armate ad approfondire questo punto cruciale.
In altre parole, la dottrina di deterrenza russa è basata sul persuadere l’avversario che una ritorsione nucleare sia inevitabile e prevede lo schieramento di “triadi nucleari”, cioè la componente terrestre con missili balistici, quella navale dai sottomarini e quella aerea con bombardieri strategici.
Il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare comprende cinque paesi come detentori di armi nucleari: gli Stati Uniti, la Russia, il Regno Unito, la Francia e la Cina.
Questi stati avevano concordato l’uso delle armi nucleari solo come misura difensiva in risposta ad un attacco, confermando così la funzione di deterrenza di tale strumento.
A gennaio 2022, in una dichiarazione congiunta, i cinque governi avevano riaffermato il principio secondo cui «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta».
Nei mesi dell’invasione, tuttavia, Mosca ha più volte reiterato le minacce dell’uso di armi nucleari contro chiunque aiutasse Kiev (che aveva rinunciato all’eredità nucleare sovietica con il memorandum di Budapest nel 1994).
Altri quattro paesi possiedono armi nucleari: l’India, il Pakistan, la Corea del Nord e Israele.
I primi due dispongono di vettori con un raggio più limitato ma soprattutto l’India, come la Cina, aderisce alla politica “no-first-use”, cioè si impegna a non usare per prima ordigni nucleari.
La Corea del Nord sta svolgendo intensi esperimenti balistici per sviluppare nuovi vettori e intende le armi atomiche come una garanzia di sopravvivenza del regime.
Infine, Israele mantiene di proposito una politica di ambiguità sul proprio arsenale nucleare e lo concepisce come strumento di deterrenza verso una minaccia esistenziale posta da avversari aggressivi come l’Iran.
Gli arsenali
La Russia dispone di un ampio numero di armi nucleari e vettori balistici a lungo raggio, come missili intercontinentali (Icbm) e sottomarini (Slbm), oltre ai bombardieri strategici, ma possiede anche scorte di sistemi a corto raggio.
Il numero preciso di testate nucleari di Mosca non è noto, ma oscilla tra le quattromila e le seimila, di cui circa duemila tattiche, nonostante solo 1550 siano pronte all’uso come prevede il trattato.
I russi considerano armi nucleari non-strategiche quelle con un raggio inferiore ai 5mila chilometri, mentre le testate tattiche sono una sottocategoria con un raggio limitato ai 500 chilometri.
A marzo 2018 Putin ha annunciato lo sviluppo di un nuovo tipo di armi nucleari, montate su missili balistici ipersonici, in grado di portare più testate.
Il Cremlino fa molto affidamento su questi progressi tecnologici per stare al passo con gli Stati Uniti e compensare le mediocri prestazioni delle sue forze convenzionali.
Per la Nato, le armi nucleari hanno quasi esclusivamente un senso di deterrenza strategica ma sono prive di utilità militare, per la quale sono più funzionali armi di precisione o ad alto potenziale.
Gli Stati Uniti mantengono comunque stoccate circa centocinquanta testate nucleari in cinque paesi europei dell’Alleanza: Belgio, Germania, Paesi Bassi, Italia e Turchia.
Queste testate possono raggiungere la Russia in circa sei minuti, perciò Mosca potrebbe abbandonare la dottrina dei Fondamenti che prevede una risposta nucleare se attaccata e passare alla dottrina di lancio preventivo.
In questo senso, con un referendum dalla dubbia regolarità che si è svolto il 27 febbraio scorso in Bielorussia, Lukashenko ha ottenuto di modificare la costituzione che proibiva di schierare armi nucleari nel paese. Nelle esercitazioni russe è stato simulato il lancio di missili balistici Iskander su Varsavia, che partirebbero da Kaliningrad o dalla Bielorussia.
Questi missili a corto raggio possono ipoteticamente colpire la Germania e la Polonia, ma non paesi con armi nucleari come la Francia e il Regno Unito.
Questa situazione fornisce una parziale garanzia di non innescare un’immediata reazione nucleare da parte dell’Alleanza come counter-strike a quello russo.
Il cosiddetto “orologio dell’apocalisse” (Doomsday Clock), ideato da scienziati atomici americani, misura simbolicamente il pericolo di un’ipotetica catastrofe nucleare, rappresentata dalla mezzanotte.
Al momento dei trattati anti-proliferazione le lancette erano state spostate indietro a 17 minuti, mentre dal 2020 sono ferme a soli 100 secondi a mezzanotte.
Le forze armate statunitensi hanno invece uno stato di allerta per le condizioni di prontezza (Defcon) su cinque livelli. Vanno dal quinto, allerta minima in tempo di pace, al primo, guerra nucleare imminente o iniziata.
L’attuale livello è Defcon 3, che prevede l’aumento della prontezza operativa e la mobilitazione delle forze aeree in 15 minuti.
Gli scenari di attacco nucleare
Molti analisti si sono esercitati nell’elaborare scenari di un potenziale attacco tattico nucleare in risposta alle sconfitte russe in Ucraina.
Un primo scenario ipotizza un lancio “dimostrativo” contro un obiettivo simbolico, come un test nel mar Nero, in un territorio disabitato o nello spazio aereo ucraino, senza vittime ma con un forte messaggio di determinazione ad usare davvero l’arma nucleare.
L’Isola dei Serpenti, per mesi oggetto di scontri e liberata dagli ucraini dopo gli affondamenti di navi russe, potrebbe costituire un obiettivo ideale.
Un’esplosione nucleare in superficie implica anche una maggiore ricaduta radioattiva (fallout) sotto forma di cenere e pulviscolo altamente letale.
Le radiazioni termiche sprigionate dalla palla di fuoco dell’esplosione possono raggiungere temperature altissime.
Una detonazione in altitudine, invece, provoca comunque un irraggiamento termico che può causare ustioni, danni oculari, danni alle infrastrutture e agli edifici dovuti alla radiazione elettromagnetica e all’onda d’urto.
Anche una testata tattica di minore potenza ha comunque effetti devastanti.
Per l’ex vicesegretaria generale della Nato Rose Gottemoeller, già sottosegretaria di Stato americana per la politica nucleare, è possibile che la Russia possa optare per un attacco nel mar Nero o su una struttura in Ucraina.
Il secondo scenario prevede, appunto, un attacco contro un obiettivo militare in Ucraina, come un deposito di munizioni o mezzi pesanti, una pista d’aviazione o un centro importante di comando e controllo.
Per la natura del conflitto, difficilmente vi sono concentrazioni di forze tali da poter orientare un attacco nucleare contro le truppe ucraine.
Il professore Scott Sagan della Stanford University ritiene che un simile attacco esporrebbe anche le forze russe e il territorio appena illegalmente annesso al rischio di contaminazione da fallout radioattivo.
Mentre un primo attacco “dimostrativo” mostrerebbe, a detta di Sagan, incertezza da parte del Cremlino anziché vera determinazione ad usare l’arma nucleare.
Un terzo scenario immagina un attacco nucleare contro una città ucraina, nel tentativo di creare terrore e spingere alla resa Kiev, o persino contro un paese Nato, ad esempio la Polonia, snodo logistico fondamentale per l’arrivo di rifornimenti e armi in Ucraina.
Si tratta tuttavia di un’ipotesi irrazionale e irrealistica. Nel primo caso perché attirerebbe lo sdegno della comunità internazionale per il massacro di centinaia di migliaia di innocenti, nel secondo perché attiverebbe l’articolo 5 del Trattato atlantico con una risposta immediata della Nato.
La decisione di lanciare un attacco nucleare spetta al presidente Putin con una serie di opzioni astratte presentate dagli strateghi militari in base alla reazione che si spera di ottenere. Una volta identificata l’opzione, le forze armate preparerebbero un ventaglio di obiettivi concreti tra cui scegliere.
Viste le crepe che iniziano ad aprirsi nel potere moscovita, non è detto che un eventuale ordine sarebbe eseguito senza obiezioni dai vertici militari e che altri esponenti del regime non si oppongano a imboccare una via senza ritorno.
La reazione occidentale
Il dodicesimo direttorato del ministero della Difesa russo gestisce le strutture adibite allo stoccaggio e manutenzione dell’arsenale nucleare.
Le basi in cui sono custoditi gli ordigni, chiamati “Object S”, sono distribuite sul territorio nazionale e contengono migliaia di testate nucleari tattiche e strategiche di varia potenza.
Solamente le testate strategiche montate su missili balistici e sui sottomarini sono pronte all’uso immediato, mentre quelle tattiche vanno rimosse dai siti “Object S”, come ad esempio quello di Belgorod-22 non lontano dal confine ucraino, trasportate con adeguati mezzi o treni alle basi militari, montate sui vettori scelti e approntate all’uso.
È una procedura che richiede ore se non giorni per essere completata e può essere osservata dalla Nato attraverso satelliti, droni, Sigint (Signal intelligence), Elint (Electronic intelligence), intercettazioni delle telecomunicazioni, droni, hackeraggio di telecamere di sicurezza, video e immagini dei convogli da fonti aperte, conferme da infiltrati.
Perciò un’attività simile sarebbe quasi certamente scoperta in anticipo dai governi occidentali. Un’opzione preventiva potrebbe essere quella di colpire il convoglio o la struttura in cui viene allestita la testata.
Interrogato sulla risposta che la Nato dovrebbe attuare in caso di attacco nucleare russo in Ucraina, il generale David Petraeus, già direttore della Cia, propende per una reazione convenzionale.
Il generale sostiene che gli Stati Uniti e la Nato potrebbero spazzare via tutte le forze armate russe in Ucraina, comprese quelle in Crimea e la flotta nel mar Nero.
Secondo Petraeus un simile attacco richiede una risposta decisiva e immediata per dimostrare alla Russia la risolutezza occidentale, senza però scatenare un’escalation nucleare.
Tale risposta dovrebbe seguire una scala di progressività. Se una testata nucleare tattica venisse lanciata, ad esempio, sull’Isola del Serpente, l’occidente dovrebbe distruggere immediatamente l’infrastruttura militare russa che l’ha lanciata, cioè la base missilistica o aerea, affondare il sottomarino o la nave militare.
Se invece l’attacco fosse compiuto contro le forze armate ucraine o, peggio, contro una città del paese invaso, la Nato potrebbe intervenire infliggendo danni devastanti alle forze russe e mettendo in ginocchio la difesa di Mosca.
Anche per l’ex senatore americano Sam Nunn, co-fondatore della Nuclear Threat Initiative, la risposta nucleare occidentale dovrebbe essere solo l’ultima risorsa.
In una serie di simulazioni svolte dal governo Obama nel 2016, è stato chiesto a due gruppi di funzionari di rispondere a uno scenario di invasione russa dei Baltici con l’uso di una testata tattica nucleare contro le forze Nato.
Il primo gruppo, composto da dirigenti del Consiglio di Sicurezza Nazionale e dello Stato Maggiore Congiunto, è arrivato alla conclusione che una risposta nucleare fosse inevitabile, perché qualsiasi altra reazione avrebbe mostrato debolezza.
Questo gruppo aveva perciò raccomandato un contrattacco nucleare sulla Bielorussia, paese alleato di Mosca.
Il secondo gruppo, invece, formato da funzionari all’epoca meno importanti, si era convinto che fosse meglio rispondere con un attacco convenzionale e coinvolgere la comunità internazionale nella condanna verso la Russia.
Due di quei funzionari, Colin Kahl e Avril Haines, oggi sono rispettivamente sottosegretario alla Difesa e direttrice dell’intelligence nazionale dell’amministrazione Biden.
Posto che un’escalation nucleare è intrinsecamente piena di incognite e rischi, questi scenari e reazioni sono quelli più probabili qualora la Russia decidesse davvero di giocarsi l’ultima carta per cambiare il destino di un conflitto ucraino che sembra a molti già segnato.
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