Si diceva che le registe non vincevano mai, che il mondo del cinema era tutto al maschile. E invece, proprio come nel grandissimo film di Todd Field, TAR, con protagonista quella dispotica direttrice d’orchestra potente, sobillatrice e invasata come un maschio dispotico qualunque, a Venezia 79 la scorpacciata di premi principali se la fanno due donne. Il Leone d’Oro va a Laura Poitras, brava e onesta documentarista che si spacca le ossa da quasi vent’anni e che nel 2014 vinse un Oscar per il suo Citizenfour dove affrontò lo scandalo delle intercettazioni illegali della NSA e volò a Hong Kong per intervistare, prima di tutti gli altri, Edward Snowden.
Gran Premio della Giuria e Miglior Opera Prima per Alice Diop con Saint Omer, la più sorprendente tra le sorprese possibili in questo robusto e ricco Concorso, film stilisticamente sofisticato e dall’impianto etico comunque discutibile (trovare il pertugio per accettare un infanticidio), pur essendo soltanto all’opera prima. Il ruggito del leone oramai è talmente inclinato al femminile che siamo al terzo anno di Leone d’Oro ad una regista: l’anno scorso ad Audrey Diwan per La scelta di Anne e l’anno precedente a Chloe Zhao per Nomadland. Insomma, probabile che per un po’ non sentiremo più parlare di disparità di genere. Semmai emerge la disparità di trattamento ricevuta da Jafar Panahi da parte di un gruppo di giurati che non ha voluto fare la cosa più ovvia e naturale del mondo: premiare il film più riuscito e universale di Venezia 79, No Bears.
Paradossalmente, il Premio Speciale della Giuria, sorta di contentino per non scontentare nessuno, accontenterà i carcerieri di Panahi. Visto Jafar? Stai tanto a girare un film in clandestinità come fossi un assassino qualunque, a sfidare la nostra assurda legge islamica e nemmeno vinci il Leone d’Oro? Mistero della fede e delle giurie. Come quello di assegnare un premio a Colin Farrell, quindi di miglior attore, quando The banshees of Inisherin di Martin McDonagh, è un racconto totalmente corale, compresi il border collie, l’asinella, il cavallo e la mucca in scena, dove conta, pardon, il direttore d’orchestra più che il primo violino. Anche tra le attrici, il premio alla Blanchett sa di sintesi facile – è una dea, sa fare tutto, ed è vero – ma offusca nuove leve (Ana De Armas è una Marilyn monumentale) e di base rimanda e rinsalda il grande rapporto oramai creatosi tra il Festival di Venezia e lo star system hollywoodiano che oramai ai primi di settembre di ogni anno preferisce un red carpet veneziano ad una qualsiasi baracconata statunitense che sia a Telluride o più, in Canada, a Toronto.
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